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Gioco illegale a Bologna, la Cassazione: non è 'ndrangheta

BOLOGNA Mentre il dibattimento del processo “Black Monkey” si avvia alla sentenza di primo grado a Bologna, con il pm Francesco Caleca che il 9 giugno ultimerà la propria requisitoria e formulerà l…

Pubblicato il: 12/05/2016 – 15:01
Gioco illegale a Bologna, la Cassazione: non è 'ndrangheta

BOLOGNA Mentre il dibattimento del processo “Black Monkey” si avvia alla sentenza di primo grado a Bologna, con il pm Francesco Caleca che il 9 giugno ultimerà la propria requisitoria e formulerà le conclusioni nei confronti di Nicola Femia e di altri 22 imputati, è definitiva la pronuncia per chi aveva scelto il rito abbreviato: secondo la Cassazione, sussiste un’associazione per delinquere finalizzata a fare profitti con il gioco illegale, ma non l’associazione a delinquere di tipo mafioso come contestato invece dalla Dda, che ritiene Femia personaggio legato alla ‘ndrangheta.
Proprio dopo un’intercettazione tra Femia e un altro indagato, erano state adottate misure di protezione per il giornalista Giovanni Tizian, parte civile. La Suprema corte ha deciso il 5 maggio sui ricorsi delle difese e della Procura generale, che aveva impugnato la sentenza sul riconoscimento dell’associazione mafiosa, e ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Bologna: condanne per Ciriaco Carrozzino (sette anni e sei mesi), Giovanni De Marco (sei anni), Giuseppe Mascheretti (nove mesi), Ciro Irco (cinque anni e quattro mesi) e Nicola Paparusso (un anno e dieci mesi); assoluzione per Luigi Tancredi, difeso dall’avvocato Giovanni Sacchi Morsiani. Anche secondo la Cassazione, dunque, non c’è l’associazione mafiosa, in dibattimento contestata a 13 imputati. Alla stessa conclusione era arrivato il gup Andrea Scarpa e, il 27 febbraio 2015, la seconda sezione penale della Corte di appello (presidente Alberto Pederiali, consigliere estensore Eleonora Frangini).
Per i giudici di appello, i collegamenti e i rapporti di Femia con esponenti di organizzazioni mafiose non sono sufficienti «per dare la medesima qualificazione al gruppo da lui costituito, gruppo che, una volta sorto e in piena operatività, deve acquisire autonoma vitalità, non mutuabile dal carisma soggettivo del capo e tanto meno dalle relazioni personali di quest’ultimo». Inoltre, «il ricorso a metodi intimidatori tipici di contesti criminali organizzati non connota, di per sé, il gruppo degli autori come mafiosi, ovvero come appartenenti ad un nucleo dotato di autonoma consistenza in grado di produrre effetti intimidatori a prescindere dalla realizzazione di singole condotte delinquenziali».

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