LAMEZIA TERME L’ultima a parlare è Stefania Tramonte, figlia di Francesco. Il sole delle sette è ormai alto, ha riscaldato l’aria, rischiarato la visuale intorno a piazza Monsignor Pasquale Caputo, meglio conosciuta come quartiere Miraglia. Intorno a Stefania Tramonte un centinaio, o poco più, di persone. Ci sono i rappresenti delle forze dell’ordine, il capitano della compagnia dei carabinieri di Lamezia, Fabio Vincelli, e il colonnello Ugo Cantoni, che dirige il comando provinciale di Catanzaro. C’è il dirigente del commissariato di polizia, Antonio Borelli, il vescovo Luigi Cantafora, il sindaco Paolo Mascaro e l’ex primo cittadino Gianni Speranza. C’è qualche consigliere comunale. C’è Giuseppe Valentino, segretario generale della Cgil Catanzaro. È presente pure il vicepresidente della giunta regionale, Antonio Viscomi. E poi gli scout in divisa, alcuni giovani e assonnati che non sanno bene perché si sono ritrovati in quello spiazzo che apre al centro storico, alle cinque del mattino, per vedere deporre una corona di fiori, e qualcuno ormai canuto che quel 24 maggio di 25 anni fa se lo ricorda bene, come ricorda bene il sorriso timido di Pasquale Cristiano. Venticinque anni. Stefania oggi è una madre, ha lasciato i suoi bambini a casa e ricorda che suo padre si alzava ogni mattina alle tre per andare a fare il netturbino e riusciva a non disturbare mai il sonno delle sue tre figlie. «Avete parlato tutti bene oggi – dice Stefania con voce commossa e decisa – ma dovete parlare anche domani. Da quando i nostri cari non ci sono più noi non viviamo una vita piena. Mi raccomando, anche domani. Basta un semplice saluto. Non facciamo che oggi ci conosciamo e domani no». Il discorso più breve il suo – abituata da quando aveva dieci anni a partecipare a ricordi e commemorazioni –, il più mirato e incisivo.
UN DELITTO PESANTE Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte sono morti alle cinque del mattino in contrada Miraglia, il 24 maggio 1991, travolti da una raffica di colpi sparati da un kalashnikov calibro 7,62 senza avere il tempo di scendere dal camion sul quale stavano lavorando. Per questa ragione il coordinamento di Libera Catanzaro, dedicato alla loro memoria, ha deciso di ricordarli nell’ora e nel luogo della loro morte. La referente, Donatella Monteverdi, si muove tra la gente, parla con tutti chiede come fare a scuotere le coscienze e la partecipazione. «Quando abbiamo deciso di intitolare il coordinamento di Libera Catanzaro a Cristiano e Tramonte non sapevamo molto di loro – ha detto Nicola Fiorita – ma sapevamo che erano due persone oneste uccise mentre lavoravano».
Un delitto che pesa ancora sulla coscienza di un’intera città quello dei due netturbini, nato nel giro losco degli appalti per la gestione della nettezza urbana. Un delitto il cui unico processo, con un unico imputato, naufragò miseramente anche in appello perché, come ha ricordato l’imprenditore Rocco Mangiardi, il pm presentò in ritardo la richiesta di ricorso che venne dichiarata inammissibile. Un delitto che bussa alla porta delle amministrazioni dell’epoca perché, scrive la corte d’Assise, facendo i conti in tasca alla gestione della nettezza urbana, operarono «macroscopici favoritismi attuati mediante evidenti violazioni di legge che non potevano non rendere il settore della nettezza urbana del Comune di Lamezia Terme terreno di conquista di spregiudicati operatori mafiosi. E l’egemonia del gruppo facente capo prima alla Cise e poi alla Sepi non tardò a subire gli assalti di chi con ferocia e con metodi mafiosi perseguiva il chiaro fine di scalzarlo e di prenderne il posto». Non fu solo una guerra tra clan rivali, quella che portò alla morte di Cristiano e Tramonte. Fu un chiaro avvertimento a una classe politica che non rispettava gli accordi. Un avvertimento scritto col sangue di due innocenti.
GLI INTERVENTI È stato definito un pellegrinaggio o meglio, secondo le parole di Antonio Viscomi, una via crucis la sosta davanti al luogo del delitto. «Inutile nascondersi dietro un dito. La cultura mafiosa continua a permeare la maggior parte della vita sociale – ha detto il prefetto Luisa Latella –. Dobbiamo riflettere sui tanti che non hanno aperto nemmeno una finestra». «Coloro che amministrano la cosa pubblica spesso si macchiano di sangue anche senza premere un grilletto», ha concluso così il proprio intervento il sindaco Mascaro.
«Venticinque anni dopo il delitto ho visto sgomento nelle persone con cui parlavo ma ho letto in loro anche la consapevolezza di come operano le mafie. Era un sapere e non sapere». Di pace ha parlato Matteo Luzza, fratello di Giuseppe ucciso a 17 anni dalla mafia. «Non odio o vendetta nei nostri cuori – ha detto Luzza – ma voglia di continuare a sperare». Intenso anche l’intervento di Mimmo Nasone, Libera Reggio Calabria, insegnante di religione anche nelle carceri. «Non dimentichiamo gli ultimi e gli umili – ha detto Nasone – bisogna disarmare le mani di chi uccide, permettergli di vedere che esiste altro nella vita. Nelle carceri ho spesso duri scontri con i miei allievi ma un giorno un boss, un assassino, mi ha detto: «Non avevo conosciuto altro nella vita». Allora forse non aveva conosciuto buoni insegnanti, buoni sacerdoti, non aveva visto alternative. Noi dobbiamo fornire quelle alternative, disarmare quelle mani».
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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