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L'umana pittura di Mike Arruzza

Mike, ma perché ti chiami Mike? E lui, col sorriso buono: «In omaggio a mio padre emigrato in America, che quando mi vide per la prima volta alla stazione, avevo dieci anni, mi chiamò così: Mike». …

Pubblicato il: 01/06/2016 – 8:01
L'umana pittura di Mike Arruzza

Mike, ma perché ti chiami Mike? E lui, col sorriso buono: «In omaggio a mio padre emigrato in America, che quando mi vide per la prima volta alla stazione, avevo dieci anni, mi chiamò così: Mike».
Vite d’emigranti (e lui l’aveva girato il mondo, prima di scrutarlo dalla sua Dasà) di popolo, di contadini, di mestieri antichi e tanta nostalgia (“Una volta uscivi di casa e ci si incontrava, si parlava, si pesavano le parole, oggi è tutto un viavai furioso, discorsi a casaccio, i giovani al computer e gli adulti disillusi”) e di calabresi della “diaspora”, tipi torvi e anime candide: tutte storie e visi e gesti e natura morta finiti (meglio sarebbe dire raccontati con leggerezza disarmante) nei suoi splendidi quadri. Oltre ottocento opere: un diluvio di pittura che fa di Mike Arruzza un artista autentico. «Uno dei maggiori artisti calabresi contemporanei dalla pittura malinconica», come ha scritto la collega Patrizia Sanzo in una lunga intervista pubblicata nel 2014 e intitolata “Dipingo per riempire il vuoto d’intorno”. Non si capacitava, Mike Arruzza di Dasà, morto all’improvviso per un’emorragia cerebrale a 78 anni, dell’irrilevanza di una «terra bella come la Calabria». Si chiedeva sempre: «Ma cosa possiamo fare?». E intanto dipingeva, spatola e pennello. Col Consiglio regionale ha avuto un rapporto breve ma intenso, quando a presiederlo c’era Giuseppe Bova. Il quadro su Giuditta Levato, mentre l’assassinano a Calabricata nel ’46 sulla terra che era andata a difendere, reca la firma di Mike Arruzza. Dopo aver letto un articolo su Giuditta Levato, simbolo del formidabile decennio delle lotte per la terra (’43-’53), a cui nel 2005 era stata intitolata una delle più eleganti aule di Palazzo Campanella, Mike contattò il vicepresidente Antonio Borrello e gli offrì il quadro. Il suo estro creativo e il suo stile si sono guadagnati lodi e riconoscimenti a iosa: la targa d’oro dell’Ente europeo manifestazioni d’Arte, il primo premio della Scuola nazionale di Storia dell’Arte “Morandi” di Fidenza, il Trofeo “Calabria”, il premio dell’Accademia internazionale artistico-letteraria Città di Boretto, della Biennale di Venezia nel 1990, dell’Internazionale d’Arte e Cultura “Di Pietro”, “Sant’Ambrous” della XIV Rassegna nazionale di pittura Città di Milano, il Premio “Calabria” nel 1997, il Premio alla carriera nel 1998, consegnatogli da Vittorio Sgarbi. Né gli sono mancate le citazioni blasonate, visto che sue opere sono contemplate nell’Enciclopedia Pittori e scultori italiani del ‘900 (Edizione Il Quadrato), nel Catalogo dell’Arte moderna italiana edito da Mondadori, come nel Dizionario enciclopedico internazionale d’arte contemporanea 1999/2000 (Edizioni Alba).
Un denso libro tra biografia ed autobiografia gli ha dedicato il collega Pietro Comito “Arruzza. Storia di un vero artista” (edito da Città del Sole). Patrizia Sanzo tratteggia così i suoi capolavori pittorici: «Contengono una dimensione antica, ma senza tempo per il fascino che desta, affiora attraverso la plasticità morbida e la luminosità dei colori corposi che delineano i volti e le sembianze di giovani donne intente ad attingere acqua alla fonte, di bambini che giocano, di irrequieti monelli impegnati a portare a termine una delle loro tante marachelle, di artigiani dallo sguardo concentrato ma dall’espressione serena, delle anziane ricurve per adempiere ai lavori domestici, come dei soggetti colti in una pacata e intima atmosfera familiare attorno a un lume o un braciere, così come dei tanti personaggi di una vita contadina povera, ma onesta e laboriosa». E poi gli oggetti e i frutti della sua opera: «Le immagini che compongono hanno plasticità intensa, dignità e vigore. È il giallo vibrante dei limoni, il rosso acceso delle melagrane, la calda tonalità delle arance, la perfezione delle forme di mele e pere cadute da un cesto rovesciato a restituire immagini di un passato che nella sua genuina semplicità sembra ancora possibile riassaporare». E inoltre la luce «che ravviva i colori del giorno e che delinea le figure rendendole sempre più reali e i fondi scuri che ripropongono atmosfere caravaggesche nella ambientazioni chiuse e nelle nature morte contraddistinguono le ambientazioni di un pittore capace di offrire, attraverso le immagini delle antiche maestranze, delle usanze di un tempo, di una quotidianità popolare, uno strumento artistico per mantenere in vita una cultura che non può estinguersi». Non è semplice sintetizzare la complessità (o la semplicità complessa) della vita di Mike, musicista, compositore, attore e prima ancora a Milano quando per campare la vita puliva argenteria in un negozio. A Dasà, il suo luogo dell’anima, mancherà questo cultore della civiltà contadina. Mancherà alla sua famiglia. Mancherà a tutti noi che contavamo sulla sua presenza quieta e riflessiva, sulle sue parole semplici che poi sono le uniche con cui ci si può difendere dalla barbarie d’intorno. Sosteneva che i giovani «debbono tentare di tutto per restare, anche se debbono partire, ma debbono poi tornare per investire, per cercare di far progredire questa regione» e che «per risollevarci è necessario ritornare di nuovo alla terra, perché una tempo dava da vivere. Oggi tanti terreni sono abbandonati, una volta non c’era un angolo che non fosse coltivato. Una piccola azienda agricola dà da vivere a più persone. Bisogna pensare di creare per sé e anche per gli altri. Bisogna provare a organizzarsi a vivere qui, non possiamo attendere una grazia che non arriverà». Ecco la semplicità che dipana la complessità: Mike si destreggiava nell’ingorgo del presente che non gli piaceva, offrendo, con le pennellate tenui e le linee morbide della sua umanità d’artista, volti, mestieri e atmosfere colme di calore e amicizia di un mondo antico a cui ispirarsi per trovare la via di casa.

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