COSENZA C’è un lavandino al centro della chiusura della campagna elettorale di Enzo Paolini. Un lavandino e la dignità di una famiglia che abita nelle case minime, una storia che è la metafora potente degli anni di amministrazione Occhiuto. Un lavandino che gli operai del Comune hanno portato via tre anni fa perché rotto e che non hanno mai sostituito. Così nella nostra città è potuto succedere che mille luminarie siano state accese, ma che quella famiglia sia rimasta senza lavandino. Paolini racconta questa storia alla sua gente, davanti al sottosegretario Zanetti, nuovamente a Cosenza per sostenerlo nell’ultimissima parte di questa campagna elettorale, e davanti a Pino e Katya Gentile, seduti in prima fila e per lui diventa la rappresentazione di una amministrazione troppo attenta all’effimero e ad accontentare ditte amiche, ma del tutto distratta rispetto ai bisogni reali delle persone normali, «mentre noi compreremo le luminarie solo quando l’ultima famiglia avrà riconquistato la sua dignità».
Paolini propone il capovolgimento del paradigma che ha governato la città in questi anni, con l’immateriale ad affascinare e i quartieri periferici lasciati nel degrado, «con le determine fatte nel cuore della notte e il denaro pubblico speso per cambiare lampadine, le piste ciclabili fuori norma e i bisogni della gente disattesi». È lunga la lista delle accuse rivolte agli anni di Occhiuto, compresa la «deportazione a pagamento dei cittadini rom», la doppia velocità dell’amministrazione, «lentissima nel fare cose concrete per la città, ma super veloce nel pagare le ditte amiche», oppure «attenta all’apparenza, ma assente quando c’era da trovare i soldi per la benzina dei pulmini per i bambini disabili». Ma la chiusura di una campagna elettorale è anche l’occasione per presentare ancora una volta la propria idea di città. Che Paolini immagina «inclusiva, attenta alle persone, capace di ascolto», e costruita attorno a tre simboli, capaci di evocare il mutamento: «portare l’ufficio del sindaco nel centro storico, nella Casa delle culture, dotare di ascensore le case popolari dove ci siano cittadini con disabilità e levare i tornelli all’ingresso di palazzo dei Bruzi, per dare libero acceso ai cittadini agli uffici». E poi ancora, ridare senso alla città vecchia, «restaurando i palazzi», restituire dignità alle cooperative di tipo B, «dando più ore di lavoro» e assumendo chi ha avuto problemi con la giustizia, «perché come insegnavano Gramsci e Mancini, solo il lavoro è autentico strumento di riscatto sociale». E dopo il programma, lo sguardo del candidato si è rivolto al Pd, perché Paolini non riesce a dimenticare l’occasione persa delle primarie, le scelte verticistiche e d’apparato, le compagnie di cui si circonda Guccione, che si presenta accanto a Verdini, e al candidato del Pd Paolini manda a dire che «l’onestà non si certifica davanti al notaio».
Nella piazza che lo ascolta c’è un pezzo di sinistra, ma non solo e Paolini lo sa bene, per questo evoca un pantheon ideale vasto e tuttavia coerente, che va dal cattolicesimo popolare, alla cultura liberale, passando ovviamente per quella libertaria e approdare ala tensione socialista e riformista, «tutte anime presenti in vario modo nelle liste che mi sostengono». E non poteva mancare la suggestione emotiva, mossa dalla sapiente citazione di pochi versi di Alfred Tennyson, come spinta ad andare oltre l’orizzonte e galvanizzare le truppe. Da questa sera dopo l’orgia di concerti, dovrebbe essere silenzio, poi parleranno solo i cittadini.
Michele Giacomantonio
redazione@corrierecal.it
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