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Alla sanità calabrese manca un "comandante"

Proviamo ad immaginare la faccia dei rilevatori del Censis-Rbm – gli stessi che hanno scritto il rapporto sulla esigibilità del diritto alla tutela della salute presentato l’8 giugno a Roma al Welf…

Pubblicato il: 10/06/2016 – 18:54
Alla sanità calabrese manca un "comandante"

Proviamo ad immaginare la faccia dei rilevatori del Censis-Rbm – gli stessi che hanno scritto il rapporto sulla esigibilità del diritto alla tutela della salute presentato l’8 giugno a Roma al Welfare Day sulla sanità integrativa – nel prendere atto dello stato dell’assistenza sanitaria in Calabria. Vedremmo impresso nella loro espressione un emoticon (nella vulgata, le faccine) di nuova species. Un insieme di stupore e scandalosa incredulità, nel constatare che i calabresi vivono al riguardo vergogna, disperazione e abbandono. Tali sono le sensazioni di chi in Calabria ha bisogno di una ordinaria prestazione sanitaria, specie di quella diagnostica per immagini spesso decisiva nella lotta per la vita. Stessa cosa capita a chi prova a ritracciare sul territorio una attività destinata alla prevenzione collettiva.
Nel Paese, si registra il 18,33% della collettività nazionale, pari a 11 milioni di cittadini, che rinunciano addirittura a fare proprie le cure nel sistema pubblico. Meglio, i Lea, quelli che la Costituzione ritiene obbligatoriamente resi, uniformemente, sull’intero territorio nazionale. Un dato incredibile per tutti tranne che per i calabresi che non sanno neppure cosa sia la corretta erogazione dei Lea, salvo avere qualche “Picone” che riesca a mandarlo nei posti giusti. Quei posti di frequente occupati da medici pubblici che amano girare le richieste ai loro studi privati. Da qui, la fuga dalle cure necessarie di tutti coloro i quali, in Calabria più che altrove, non hanno nulla da spendere, pena l’impossibilità di alimentarsi, di pagare le bollette e gli affitti. Di conseguenza, dalle nostre parti la percentuale dei rinunciatari è di gran lunga più alta di quella media del Paese, oltre il doppio. Insomma, un vero dramma sociale!
Questa è la Calabria della salute, a fronte di consistenti risorse, fatte abbondantemente proprie negli anni e buttate al vento nell’esercizio di una politica sanitaria che non c’è mai stata e continua a non esserci. L’importante – per chi ha gestito – è stato lasciare le proprie impronte digitali sulle opere, ancorché inutili (basti pensare ai presidi ospedalieri costruiti come se si giocasse al Monopoli), e prendere a piene mani il consenso clientelare. Quel voto di “scambio” proveniente da quell’occupazione sbilanciata che ha visto il ceto amministrativo in senso lato prevalere su quello più propriamente sanitario. Quest’ultimo viziato dalla previsione di “primariati” fatti apposta per incrementare gli eserciti dei clientes ovvero per soddisfare la voglia di successo “lavorativo” di parenti, affini, amici e oltre. Una logica che ha fatto sì che si trovassero disseminati negli ospedali numerosi guastatori di salute, a discapito dei bravi, andati altrove o relegati a compensare l’incapacità dei preposti per volontà politica.
Una tale brutta e pericolosa abitudine pare essere ancora di moda, fatta salva qualche resistenza di quei pochi direttori generali e componenti delle commissioni divenuti i partigiani della meritocrazia. L’occasione è dettata dal bisogno assoluto di coprire le perniciose assenze create nei reparti ospedalieri da quell’assurdo blocco del turnover che ha prodotto il peggiore risultato, di inaridire l’offerta e di desertificare le corsie. Ciò in quanto il piano di risanamento, riorganizzazione o di potenziamento del Ssr (Sistema sanitario regionale) è stato tradotto in un asettico piano di rientro, stupidamente ragionieristico, cui vanno fatti risalire i danni che l’attuale servizio genera sistematicamente.
A tutto questo si è aggiunta una incapacità sostanziale dei commissari ad acta nel leggere la Calabria e i calabresi, la sua difficile orografia, le povertà diffuse provenienti da appena cessate forme di analfabetismo, frequente nella consistente periferia montana, e le ricadute della perenne e crescente disoccupazione. Una inadeguatezza culturale che fa da pendant con una politica che della sanità conosce a mala pena il nome. In quanto tale, il commissariamento rappresenta il peggiore nocchiere nell’affrontare la tempesta in cui il servizio sanitario regionale si trova da sempre.
In un sistema della salute come il nostro, perché lo stesso possa divenire degno di chiamarsi finalmente tale, è importante rendersi cosciente di due cose: il punto nave e la rotta. Meglio (per i non avvezzi alla navigazione), il fabbisogno epidemiologico reale e l’elaborazione di un progetto industriale funzionale al suo graduale soddisfacimento.
Per fare ciò si rende ovvia la presenza di due necessari presupposti: la nave (rectius, i rilevatori del fabbisogno epidemiologico messi a sistema, cominciando dai medici di famiglia, dai sindaci, da tutte rappresentanze categoriali utili); la carta nautica, assistita da strumenti di misurazione e di tracciatura, ben gestita da un abile comandante. A proposito, di quest’ultimo, nemmeno l’ombra nell’esercizio delle sue funzioni. Forse perché troppo impegnato a litigare in porto con un commissario di bordo inconcludente, che gli fa pure i dispetti, e a confondere la nave, cui è preposto, con il “natante” locale cui era abituato per andare “a pesca”.
E dire che potrebbe essere un buon capitano!

*docente Unical

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