Non resta che aspettare Renzi con il lanciafiamme. Il Partito democratico in Calabria non sembra, infatti, abbia intenzione di affrancarsi dalle baronie che a Cosenza lo hanno portato al minimo storico; a Reggio lo hanno fatto sparire da competizioni importanti come le amministrative di Rosarno; a Crotone lo costringono a vivere una vigilia di ballottaggio tutt’altro che rilassata e a Catanzaro basano l’opposizione nel capoluogo su una sorta di volontariato militante, mentre in provincia perdono in centri storicamente di sinistra e nelle comunali di casa sua il segretario provinciale e presidente della provincia sbaglia a presentare la lista e resta fuori.
Questo lo scenario che fa infuriare Matteo Renzi. Ma non i suoi colonnelli che, evidentemente, pensano di farla franca anche questa volta. Evitano qualsiasi confronto pubblico, di dimissioni neanche si parla, lasciano Guglielmelli a regnare sui ruderi di Cosenza, Romeo, Bruno e Mirabelli a esercitare in spregio allo Statuto il ruolo di segretari provinciali di Reggio, Catanzaro e Vibo. Sul punto anche il silenzio di Ernesto Magorno comincia a diventare assordante: una prima volta può trovarsi con il pallone in mano e i vetri rotti dagli altri. Se però ogni sera finisce a pallonate anche il buon Magorno dovrà renderne conto.
La “politica”, resta affidata ai soliti incontri semiclandestini. Due in particolare: uno a Roma, l’altro a Reggio Calabria. Entrambi finalizzati a rafforzare l’asse Nicola Adamo-Sebi Romeo con la benedizione di un redivivo Peppe Bova in modo da realizzare uno sbarramento agli elementi di novità che si teme possano venire da quel fronte interno che fa riferimento ai deputati Ernesto Carbone e Ferdinando Aiello. In mezzo una giunta regionale e un governato(re) che non sanno più a che santo votarsi e nel dubbio eleggono monumenti a se stessi e al proprio famiglio, quello storico e quello sopraggiunto.
A Roma erano Nicola Adamo, Demetrio Battaglia e Mario Oliverio. A Reggio la tavolata era più larga e anche più circospetta. C’erano Nicola Adamo e Peppe Bova, coppia di fatto che ha dettato legge nelle ultime tre devastanti legislature della sinistra calabrese. C’era Seby Romeo e c’era Nino De Gaetano, al quale bisogna riconoscere il merito di essere, quando i suoi impegni giudiziari glielo consentono, il più presente negli uffici di Palazzo Campanella, per come registrano esterrefatti gli investigatori della Procura di Reggio Calabria. C’era anche, ma in posizione più defilata, diremmo quasi controvoglia, Francesco D’Agostino, vicepresidente del consiglio regionale poco appassionato alle contese reggine e tuttavia amico di vecchia data di Peppe Bova. Completava il gruppo Damiano Covelli.
A questo secondo tavolo la discussione era ben più pragmatica di quella romana: come attrezzarsi per mantenere ferreo controllo sulla Regione Calabria e sul Pd, ammortizzando gli inevitabili contraccolpi che la disastrosa (per il Pd) tornata amministrativa aveva provocato, specie con riferimento alla vittoria di Mario Occhiuto a Cosenza. A sentire i contenuti dell’amichevole chiacchierata, non pare che Adamo e Bova vogliano un gran bene a Mario Oliverio, mentre ritengono non costituisca un problema Ernesto Magorno.
Meravigliarsi? E perché mai, quando non è la politica il centro dell’interesse di una attività politica, è normale che il partito e i suoi destini passino in secondo piano.
Lo carichi bene il suo lanciafiamme Matteo Renzi.
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