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Restare per aprirsi al mondo: il sogno di una montagna di pace

«Quando saranno completate le generazioni, apparirà manifestamente la Verità». «Quando sarà cessata la più grande delle tribolazioni, verrà il tempo della consolazione della Gerusalemme celeste, e …

Pubblicato il: 24/06/2016 – 10:27
Restare per aprirsi al mondo: il sogno di una montagna di pace

«Quando saranno completate le generazioni, apparirà manifestamente la Verità». «Quando sarà cessata la più grande delle tribolazioni, verrà il tempo della consolazione della Gerusalemme celeste, e ci sarà in essa una gioia eterna». «Non ci saranno travagli e gemiti, ma serenità e riposo, e pace in abbondanza». «Sarà cancellata l’iniquità nel popolo di Dio, e sarà instaurata la giustizia eterna». «Tutto il popolo gioirà nella bellezza della pace». «Sarà offerta una grandiosa solennità agli occhi degli eletti e quindi un anticipo della visione della pace». «Sarà dato il regno e il potere che è sotto ogni cielo al popolo dei Santi dell’Altissimo e vivrà nel gaudio il popolo di Dio». (Gioacchino da Fiore Liber Conc.; De Septem Sigillis; De Vita S. Ben.; Liber Conc., Lib. Fig.; Tract.).

La prima volta che sono stato accolto dalle rovine di Corazzo ho avuto una sensazione di calore e di smarrimento. Ne avevo letto sui libri, avevo visto qualche immagine che le ritraeva, le avevo fissate e interrogate anche da vicino, ammirato e distratto, incantato e stupito, rimandando sempre a una prossima volta il mio “corpo a corpo” culturale ed emotivo con queste imponenti memorie materiali del passato che non si rassegnava a passare e mandava segni di vita. La volta in cui, però, “entravo dentro” un paesaggio di rovine ho avuto la sensazione di essere tornato in una sorta di ventre della Madre Terra e anche di essere sovrastato da quei muri che, dopo secoli di vita e di abbandono, continuavano a svettare verso il cielo. Nel più assoluto silenzio delle erbe, della natura, del paesaggio con cui ormai sembravano essere pacificate, confuse, avere trovato una nuova armonia, che non contemplava più – non sembrava contemplare – la presenza dell’uomo. Ero in compagnia, sul finire del secondo millennio, di una mia giovane studentessa che faceva una tesi sulle culture popolari di Castagna, una frazione di Carlopoli, dove viveva con la sua famiglia ancora legata alla terra e alla produzione agricola. Ricordo una splendida figura di nonna che conosceva storie e leggende e che aveva la percezione netta della fine del suo mondo, che non significava nascita di uno nuovo, ma abbandono e vuoto. La ragazza, che spesso ricordo, chiedendomi dove sia e cosa faccia – la struggente e inguaribile nostalgia per tutte le persone incontrate, dei mille volti visti a lungo o anche per un istante -, amava profondamente quel luogo: Corazzo faceva parte del suo paesaggio fin dalla nascita e coltivava il suo sogno di restare che non era disgiunto dalla consapevolezza che non sarebbe stato facile e che, forse, non sarebbe stato nemmeno opportuno. Adesso, che altre ragazze e ragazzi sognano di poter restare e inventano stili e pratiche per trasformare quei luoghi in una vivibile “montagna di pace”, adesso che ritorno in quei luoghi, sento che sto scrivendo anche per lei, anche a lei, per tutti quelli che sono andati via o che sono rimasti, sempre nella più assoluta indifferenza e insensibilità di chi ha governato questa terra negli ultimi decenni. In quegli anni continuavo tenacemente a cercare la vita e le memorie proprio là dove sembrava trionfare la morte e soltanto i suoni della natura e degli animali. Mi muovevo in paesi abbandonati o in progressivo abbandono, nella Calabria dell’interno di cui pochi sembravano accorgersi, e là dove gli altri scorgevano la fine tentavo di immaginare un’altra vita. Cercare ciò che resta, che resiste, che è solido e che parla proprio tra gli avanzi, gli scarti, i margini, le periferie inventate dalla modernità devastante e violenta. Non c’era, come capita oggi a qualcuno, alcuna indulgenza all’estetismo per un mondo perduto, a una visione neoromantica e, insieme, necrofila delle rovine e dei luoghi abbandonati. Non c’era alcuna indulgenza sterilmente nostalgica per un bel tempo perduto e passato, ma nemmeno tanta furia devastatrice e ansia di correre verso nessuna meta e senza alcuna idea di dove andare e con chi e per fare cosa. La fretta e la distruzione fini a se stessi. Con molte ragioni, a volte con sensi di colpa o con sentimenti di rabbia e di tenerezza. Con tutti i libri di filosofia e letteratura, antropologia e storia che ho studiato, i miei maestri e modelli di riferimento sono rimasti i contadini e braccianti, “farsari”, poeti e mastri, le donne che narravano ancora di santi e di briganti, di fame e di fatica, i grandi protagonisti di battaglie per il riscatto e la libertà: le persone che conoscevano fatiche e dolori, fughe dolenti e ritorni deludenti, e che avevano sostenuto sforzi enormi, avevano viaggiato alla fine del mondo, là dove non conoscevano nessuna parola e lentamente avevano fondato un nuovo mondo, che conteneva quello antico, dove però non volevano tornare. E i grandi sconosciuti protagonisti di battaglie per il riscatto e la libertà della povera gente.

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Quel giorno, a Corazzo, con la mia giovanissima allieva, che rivedo anche in una foto che la ritrae nella sua amorevole posa di chi guarda fiducioso al mondo nuovo, immersa tenacemente nelle sue radici, i ruderi di Corazzo – che oggi sono al centro di progetti di recupero e di rinascita portati avanti da gruppi, associazioni ed enti locali (con molti giovani in testa) – mi interrogavano con il loro silenzio e con una magnificenza che, in Calabria, avevo trovato a Soriano e a Soreto, in due conventi che, diversamente, conservavano ancora splendore di un tempo passato, a volte mitizzato, e che era sconosciuto ai più. Nei luoghi delle rovine che interrogavo per trovare un senso spesso il fondo sonoro era il canto degli uccelli, delle mucche e le pecore che pascolavano. Gli animali sembrano partecipare della pietas che ispiravano i luoghi abbandonati, che restavano vivi anche nella memoria e nei ricordi, nei racconti degli adulti e anche dei giovani che cominciavano a tornare per le feste di una memoria che arrivava loro dai padri e dalle madri. Anche le nostre rovine, le più imponenti, e quelle minute, invisibili e ignote, mi svelavano tutto lo scacco per l’uomo che crea. Le erbe alte, incolte, trionfanti che si prendevano ciò che l’uomo aveva lasciato, distrutto, abbandonato. La pianta del fico (simbolo di vita e di forza nella tradizione religiosa ebraica e cristiana) che cresce anche nei mattoni e nel cemento case vuote e abbandonate, tra i ruderi ridotti a macerie, negli edifici cadenti anche di periodi recenti (case coloniche, case cantoniere, stazioni ferroviarie) erano simbolo del trionfo della natura. Vivevo, come scriveva Simmel, uno spostamento che si risolve in «una tragicità cosmica» che situa ogni rovina all’ombra della malinconia?

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L’intenso e tenero sguardo della mia studentessa, il rapporto affettivo e sentimentale che con quelle rovine intratteneva, mi ricordavano altri custodi di rovine e di memorie che, con cura amorevole, si recavano in luoghi abbandonati e tra ruderi quasi mossi da un senso religioso e da una sorta di orgoglio identitario. Una maniera sentimentale e familiare di guardare i ruderi mi rendevano più insopportabile l’incuria, le dimenticanze, le rimozioni di chi sciupava questi immensi tesori. I luoghi sono anche tutte le storie che custodiscono, mescolano, selezionano. E quello che di loro è stato raccontato. La prima volta che sono entrato nel ventre di Corazzo, io avvertivo su di me storie e parole, identità plurali, ombre e luci. La mia visione di Corazzo, sulla percezione che ne avevo, svettava la figura gigantesca di Gioacchino da Fiore, nato a Celico tra il 1130 e il 1135, che a Corazzo diventa abate nel 1177. Mi passavano per la mente, di fronte a quello scenario di rovine, le immagini gioiose di esultanza di Gioacchino per l’arrivo della nuova età e del nuovo ordine. Selezionavo, ammetto, perché
quella che noi chiamiamo identità dei luoghi è una costruzione e anche la nostra memoria è selettiva.

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Nessuna civiltà come la nostra ha avuto la capacità di prefigurare, attendere, produrre rovine e nello stesso tempo il senso e la consapevolezza delle rovine, la capacità di valorizzarle, tutelarle, decifrarle. Le rovine sono memorie materiali, reliquie, segno di ciò che resta e di ciò che dura. Portano al passato ma hanno un futuro. Possiamo immaginare lo stesso per la montagna, simbolo di ciò che resiste, con una solidità che porta nelle grotte e nel sottoterra, ma anche in alto, verso il cielo? La categoria dell’isolamento e della mancata penetrazione della civiltà nelle zone montuose, nel caso della Calabria, non tiene conto che spesso grandi correnti di civiltà e di pensiero, ma anche iniziative produttive, economiche, artistiche, artigianali, spirituali e culturali significative si affermano proprio all’interno. I monaci e i santi italo-greci, Cassiodoro e Gioacchino da Fiore, Bruno di Colonia, qui hanno trovato humus per fare radici e per costituire centri di elaborazione e irradiazione culturale. E non è senza significato che monache di clausura (come le Clarisse di Scigliano) abbiano “scelto” oggi proprio le aree interne della regione per la loro esperienza religiosa, di preghiera e solitudine, profondamente segnate da un senso religioso dei luoghi. Olindo Malagodi nel 1905, riteneva errata l’impressione che la miseria fosse legata alla montagna. Per il grande giornalista, però, bisognava avere «il coraggio di affrontarla su per le ripide erte» per vederne le meraviglie naturali e paeseggistiche. Superare il pregiudizio e la pigrizia, di guardare i centri interni dal basso verso l’alto e non dal loro interno. I ragazzi e le ragazze che si incontrano oggi a Corazzo sembrano intercettare concezioni che vedono risorse e futuro e anche modelli alternativi e non omologati di vita in luoghi morticati e desertificati, che sono stati anche centro di vita e di spiritualità e di legami sacri. Restare, allora, non è uno slogan e un proclama. Si può affermare un’utopia di piccole cose che richiede pazienza e cura, circospezione e tenacia, attenzione e apertura, senso di responsabilità e discorsi di verità che non ammettono illusioni. Se è una scelta consapevole ed etica, restare non può diventare mai chiusura o territorio per artificiosi contrasti tra chi è partito e rimasto, tra chi è rimasto e chi oggi arriva o torna. Nella “montagna di pace”, una bella immagine che invita a una nuova «religione» (nel senso etimologico del termine) dei luoghi, c’è posto per accogliere mille colori, musiche, convivialità. Mobilità e stanzialità, fuga e radicamento, sono elementi di un’identità che non è data una volta per sempre e che non è monocromatica, ma è da accogliere e inventare quotidianamente, anche compiendo scelte dolorose e scomode, in controtendenza. Restare presuppone, come ascolto anche da tante ragazze e ragazzi che si ritrovano domenica a Corazzo (spero si aggiungano quelli di ieri), capacità di guardare dentro e lontano, desiderio e bisogno di creare legami nuovi in una terra da vivere come una grande città, senza le anguste divisioni del passato: una città, come sognavano Gioacchino e Campanella, che deve riconoscere, rendere vero e abitabile il proprio interno per dialogare con il mondo e aprirsi a esso. Se muore la Calabria dell’interno, della vita e dell’anima, tutta la regione diventerà un deserto in una più vasta landa desolata e melanconica. Anche questo dicono i tanti che sognano una montagna di pace.

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