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L'arte di sbagliare i rigori

«Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Era ques…

Pubblicato il: 05/07/2016 – 14:01
L'arte di sbagliare i rigori

«Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Era questo il motivo della bellissima “La leva calcistica del ’68” di Francesco De Gregori che accompagnava le nostre scorribande estive del 1982. «Ma Nino non aver paura…» per me, Salvatore, Pino, Bruna, Kety, Michele e altre ed altri diventava: «Ma Antonio non aveva paura…» con omaggio commosso a Cabrini che aveva sbagliato un calcio di rigore alla Gemania e non si smarrì e divenne protagonista della storica vittoria per 3 a 1 dell’Italia alla Germania.
Non era facile reagire dopo quell’errore, ma l’Italia di allora era quella di Bearzot allenatore e Zoff e Gentile, Cabrini, Tardelli, Scirea, Rossi rivelò una forza fisica e un carattere, uniti ad alto livello tecnico, sorprendenti. Avevamo già battuto l’Argentina, il Brasile, la Polonia e così anche la mia generazione del 68 che era già matura ebbe una nuova mitologia che la allontanava dagli anni bui delle stragi e del terrore, vide sventolare le mani di Sandro Pertini (poi immortalato con Bearzot e due calciatori in aereo a giocare a carte), e conobbe l’urlo di Tardelli che nell’immaginario nazionale sarebbe stato più famoso di altri celebri urli della pittura e del cinema. Un urlo che rimase soprattutto nelle orecchie dei tedeschi, che poi persero con l’Italia nel 2006 in semifinale ai mondiali e nel 2012 in quella dell’Europeo poi vinto dalla Spagna.
E che, nella parte dei perdenti, sono protagonisti del famoso 4-3 Italia-Germania nell’Azteca a Città del Mexico (Mondiali 1970). I tedeschi pensavano ormai a una maledizione e, non a caso, adesso i principali giornali, accanto alla consueta ironia contro gli italiani mammoni, titolano: “Ciao Italia, maledizione finita”; “Ora non tremeremo più contro l’Italia”. Per gli italiani invece torna la maledizione dei calci di rigore, che era stata spezzata soltanto ai mondiali del 2006. Sulla paura del calcio di rigore che prende il portiere, Peter Handke nel 1970 ha pubblicato un bellissimo romanzo dal titolo “Prima del calcio di rigore”(subito portato sullo schermo da un giovanissimo Wim Wenders). La paura del calcio di rigore è metafora della paura di esistere e delle paranoie contemporanee. Se il portiere ha paura, chi calcia il rigore ha terrore. Alla fine è lui il responsabile di come andrà a finire. Il portiere se para è grande, ma se non para è stato solo bravo chi ha tirato. Pensiamo, per un attimo, all’ansia, al tremore, alle palpitazioni che ci prendono quando un nostro campione sta per battere un rigore decisivo in una partita finale le cui sorti sono legate a quel tiro. Capiremo perché sia normale, umano, possibile che il rigore sia sbagliato anche dai più grandi campioni. C’è una lunga casistica che va da Baggio a Messi e a Cristiano Ronaldo.
Si può tirare male un calcio di rigore; e si può perdere una partita con una delle nazionali più forti al mondo, dopo quattro vittorie e quattro pareggi, anche per il calcolo delle probabilità. Questo però non significa che un rigore non bisogni tirarlo con decisione, coraggio, serietà. Rispetto per gli avversari. «Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Queste doti non hanno avuto i calciatori quando si sono trovati nella loro solitudine. «Nino capì fin dal primo momento /L’allenatore sembrava contento/E allora mise il cuore dentro alle scarpe/E corse più veloce del vento. /Prese un pallone che sembrava stregato/ Accanto al piede rimaneva incollato,/Entra nell’area, tira senza guardare/Ed il portiere lo fece passare».
Il gesto difficile e semplice, banale e crudele, completo e complesso (come scrive Maurizio Crosetti su “La Repubblica”) di calciare un calcio di rigore alla fine ci ha restituito tutta la nostra normalità, ci ha svelati nella nostra spocchia e tracotanza, nella nostra genialità e sregolatezza. Il senso del collettivo e lo spirito di sacrificio mostrati dai calciatori fino a quando essi si sono sentiti un gruppo si sono dileguati quando sono rimasti soli, ognuno con la propria responsabilità e con la decisione se tirare e come tirare. Sono emerse la presunzione e l’irriverenza dei calciatori ricchi e viziati che ci ricordano che il calcio è affari, scommesse, danaro, immagine, potere. Il capolavoro di Conte (mettere assieme giocatori inesperti e di non eccelso livello tecnico) si è trasformato in una sorta di dolente disfatta e il tecnico della nazionale, alla fine, ha lamentato la solitudine in cui era stato lasciato. E adesso Zaza e Pellé diventeranno il volto di quell’Italia che sa passare in pochi attimi dall’epopea alla commedia.
Stregati da Neuer come Renzi è stregato dalla Merkel. Anche lui spocchioso dinnanzi al potere dei tedeschi come i nostri solitari rigoristi.
Spiace davvero che una squadra senza campioni (tranne Buffon, Bonucci e qualcun altro di piede buono), di mediocri divenuti grandi quando hanno fatto gli operai, compensando la modestia con l’agonismo, la pochezza tecnica con l’entusiasmo e il sentirsi gruppo, adesso verrà ricordata, soprattutto, perché alla prova dei fatti ha rivelato la sua debolezza. La sua eccezionalità rispetto al valore del calcio italiano.
Ma è andata davvero così? O è possibile un’altra lettura?
Zaza che sui micidiali social impazza con la sua “danza” ha ballato attorno al pallone come in un rito propiziatorio nella speranza che il pallone finisse davvero lassù, in alto, dove voleva mandarlo. Pellé, con il suo evidente gesto di reverente saluto a Neuer, voleva soltanto fare capire al portiere più bravo del mondo (forse dopo Buffon) di non tentare di parare un cucchiaio per evitare che il pallone, involontariamente toccato, potesse entrare in porta, mentre lui aveva calcolato bene come farlo scivolare a lato del palo sinistro con millimetrica precisione. Era una strategia per perdere; era un modo di dare dignità all’Italia. Non abbiamo capito che l’arte di sbagliare il rigore era tutta calcolata e animata da spirito patriottico. Perdere solo ai rigori per evitare la disfatta della festa. Fossero entrate quelle palle nella porta (bastava quella di Pellé), noi italiani avremmo fatto caroselli, cortei, immersioni, gavettoni nelle fontane; avremmo appeso il tricolore a tutte le finestre delle case. Una baldoria infinita di popolo che si sarebbe trasformata in vergogna: avrebbe tolto residua dignità alla nazione Italia nel giorno della strage di Dacca. Zaza, Pellè e gli altri ci hanno risparmiato questa magra figura. Si sono ricordati, mentre tiravano il calcio di rigore, che al braccio portavano il segno del lutto e non potevano rendersi responsabili di una follia collettiva che si annunciava in tutte le contrade d’Italia.
E il pianto, umano troppo umano, toccante e contagioso, di Buffon, Conte e degli altri è stato, alla fine, risulta più giusto e adeguato a quella giornata di lutto nazionale. E cosi a Neuer e Hector è rimasto il “l’onere” di fare impazzire e folleggiare i tedeschi, nelle strade e sui giornali, nel giorno in cui erano stati trucidate venti persone di cui nove italiane ed europee. Hanno esultato per essersi liberati della “maledizione dell’Italia” senza accorgersi della “maledizione” che li circonda in tutta Europa per la loro incapacità di costruire, davvero, una comunità dei popoli. Non siano tristi e delusi, i nostri calciatori e nemmeno Conte, e nemmeno noi. Tutto era stato calcolato.
Questa partita giocata bene e persa ai calci di rigore resterà nella storia patria come quell’evento in cui i calciatori, hanno fatto di tutto, alla fine, per farci perdere come squadra di calcio, ma per farci vincere come nazione. O no?

*Antropologo e scrittore

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