REGGIO CALABRIA Al netto di qualche riduzione di pena, è una conferma rotonda dell’impianto accusatorio già avvalorato dalla sentenza del primo grado, quella decisa dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria per il processo Epilogo, scaturito dall’inchiesta che ha individuato e fermato le nuove leve dei Serraino. Un clan – hanno svelato i processi – in grado di rigenerarsi dopo gli arresti e la morte dei capi storici, affidando le proprie sorti al cosiddetto “banco nuovo”. Giovanissimi ma feroci esponenti della storica cosca della montagna, tutti gli imputati anche in Appello sono stati condannati a pene che rimangono pesanti, nonostante le riduzioni.
Passa da 18 a 13 anni di carcere Alessandro Serraino, considerato il vertice del clan, mentre è di 15 anni e 6 mesi la pena inflitta al suo braccio destro, Fabio Giardiniere, in primo grado punito con 26 anni di carcere. Incassa invece 11 anni e 6 mesi Maurizio Cortese, in precedenza condannato a 23 anni e 8 mesi, mentre per il vecchio boss Demetrio Serraino, punito in primo grado con 18 anni, la pena disposta dai giudici dell’Appello è di 12 anni. Nove anni sono andati ad Antonio Alati, in precedenza condannato a 15 anni, mentre 10 anni e 6 mesi di detenzione sono stati disposti per Giovanni Siclari, in primo grado punito con 13. Infine 10 anni sono andati a Francesco Tomasello, in precedenza condannato a 15 anni.
L’INCHIESTA Accogliendo in pieno l’impianto accusatorio, anche per i giudici della Corte d’Appello è questo il “banco nuovo” con cui il clan della montagna puntava a ricostruire il proprio impero, dunque è questo il vivaio da estirpare per spezzare la continuità criminale che ha fatto sì che alla sbarra ci siano i diretti discendenti di quella cosca Serraino, più e più volte condannata in precedenti dibattimenti.
UN CLAN STORICO E SEMPRE ATTIVO Anche per la Corte dunque, la famiglia mafiosa del clan della montagna ha continuato a sfornare nuovi eredi che si sono posti in assoluta linea di continuità con la strada perseguita da nonni, zii, padri. Eredi il cui percorso criminale può essere interrotto solo con condanne adeguate alla pericolosità sociale di aggregazioni – aveva spiegato Lombardo in primo grado – paragonabili a cellule terroristiche. I componenti del “banco nuovo” – è emerso dal dibattimento di primo grado – non sono vittime di contesti degradati o di un’educazione sbagliata, sono ragazzi che si muovono in un contesto di tipo mafioso che hanno pienamente accettato.
LA LEGGE DEI SERRAINO Conclusioni pienamente accettate già dai giudici del primo grado che in sede di motivazione avevano sottolineato: «Nessun evento delittuoso poteva consumarsi a Cardeto e dintorni senza che vi fosse il preventivo assenso della cosca Serraino», e allo stesso modo «solo le imprese che ricevevano l’avallo dei Serraino potevano lavorare in quelle zone». Dati che emergono chiaramente dalla viva voce dei protagonisti dell’indagine e dimostrano – si legge nella sentenza – «come la cosca Serraino fosse un unicum operante, secondo quanto già visto, nel territorio di Cardeto e zone limitrofe (ramo al quale appartengono gli odierni imputati Alati Antonino e Serraino Demetrio) e attiva, altresì, nel territorio di San Sperato attraverso le “giovani leve”, in gran parte imputati nel presente procedimento (Giardiniere Fabio Antonino, Cortese Maurizio, Tomasello Francesco e Siclari Giovanni). Discorso a parte merita Serraino Alessandro, trait d’union tra le giovani reclute e il ceppo storico di Cardeto, riconosciuto al vertice della cosca per diretto volere di Serraino Domenico, del quale ha ereditato la posizione di comando».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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