LAMEZIA TERME Vent’anni non si cancellano con un colpo di spugna o con una pacca sulla spalla. Vent’anni di paura, di speranze e di ipocrisia. Così, dopo aver appreso la notizia che esiste, finalmente, una traccia, un movente per la morte di suo fratello Gennaro – fotografo ed ex carabiniere scomparso il 16 dicembre 1996 – Raffaele Ventura, anch’egli fotografo attualmente residente a Milano, scioglie ogni riserva e mostra quel grumo che si era incancrenito nel suo petto per tanti anni. «Non possiamo che sentirci orgogliosi per tutto questo interessamento, questo affetto e questo clima di solidarietà dimostratoci – dice –. Sostegno che è decisamente mancato in questi 20 anni. Non riesco proprio a trattenermi dal fare poche considerazioni: 20 anni non si dimenticano così. Gli ultimi 8 anni non si dimenticano così». Nel 2008, in maniera del tutto casuale, venne ritrovato il corpo del fotografo in un casolare abbandonato (lo avevamo raccontato qui). Oggi, stando alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, si è scoperto che Gennaro Ventura è morto per ragioni legate al suo lavoro come carabiniere quando era in servizio a Tivoli: aveva contribuito all’arresto e alla condanna per rapina di Raffaele Rao, cugino di Mimmo Cannizzaro, della cosca Cannizzaro-Daponte-Iannazzo. Del delitto Ventura si è autoaccusato il pentito Gennaro Pulice che ha indicato quale mandante proprio Mimmo Cannizzaro, finito in manette lo scorso 23 giugno.
Ucciso per avere compiuto il proprio dovere, si dice oggi, ma negli ultimi 20 anni se ne sono dette tante. A un certo punto spuntò anche la pista passionale, l’ipotesi che Gennaro Ventura fosse stato ucciso perché amante della donna di un boss.
«LAMEZIA HA INFAMATO E SPECULATO» Raffaele non dimentica, non può. «Proprio per questo motivo, oggi che è venuta a galla la verità, dopo 20 anni, Lamezia mi fa ridere, i lametini mi fanno ridere. In questi anni non si è fatto altro che speculare, infamare. Se ne sono dette di tutti i colori; potrei pubblicare un articolo diverso al giorno, per anni interi. Tutto questo ha fatto sentire la famiglia Ventura, già stremata per la scomparsa e per il successivo ritrovamento, umiliata, abbandonata, rincuorata dalla sola speranza. La mia famiglia è stata giudicata e disprezzata, la memoria di mio fratello Gennaro è stata quotidianamente infangata con allusioni e conclusioni infondate, di poco conto e spesso denigratorie e oggi, da un giorno all’altro, c’è chi grida all’eroe, all’onore, al senso del dovere e al sacrificio».
«VENGA FUORI CHI SAPEVA E HA TACIUTO» Omertà e ipocrisia ogni cosa ammantano a Lamezia Terme. Impossibile pensare che nessuno sapesse. «Ora speriamo che venga fuori anche chi, sicuramente, sapeva ma che ha taciuto quasi certamente per paura», dice Raffaele al Corriere della Calabria. «Il nostro orgoglio nasce da lui, da mio fratello, non da come lui venga ad oggi innalzato da Lamezia. Non abbiamo bisogno di questo tipo di dimostrazione di solidarietà e affetto; quando c’era da stare vicino alla mia famiglia ci si è allontanati; si è visto sin dal momento della scomparsa e dal giorno del ritrovamento chi è rimasto. Gennaro non ha bisogno di questo, la mia famiglia non ha bisogno di questo. Lamezia è una città magnifica ma, se ha davvero intenzione di cambiare, Lamezia non ha bisogno di questo».
La pista del lavoro di Gennaro venne seguita per un certo periodo ma non resse a lungo. «Nell’immediatezza dei fatti le indagini si sono direzionate proprio all’attività svolta da carabiniere, ma era talmente inverosimile che furono, a mio avviso, trascurate. Non poteva essere credibile una vendetta nei confronti di un carabiniere anche se aveva lasciato la divisa. Questo è quanto leggevo sulle labbra degli inquirenti», ricorda Raffaele. La barbarie che oggi si delinea all’orizzonte, all’epoca dei fatti non trovò riscontri, né testimoni o collaboratori di giustizia. Il primo procedimento per la scomparsa del fotografo si concluse con un’archiviazione per essere riaperto solo dopo il ritrovamento dei resti nel 2008. Una sorte avversa quella dell’ex carabiniere, segnata dal fatto di essere rientrato nella sua città e di avere incrociato il desiderio di vendetta dei Cannizzaro. Eppure lui non fu l’unico a contribuire alla cattura di Raffaele Rao, che venne inchiodato, per rapina, anche da altre due persone: un perito chimico e un altro carabiniere. Ma loro non erano di Lamezia Terme.
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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