REGGIO CALABRIA Al netto dei livorosi commenti di chi ha bollato come inutili fantasie le scrupolose indagini tese a svelare il volto della direzione strategica della ‘ndrangheta, quel terreno di mezzo, per molti anni rimasto invisibile ai più, è servito ai suoi abitanti ad ottenere risultati tangibili e concreti. E non solo nel limaccioso mondo politico. Grazie puntuali soffiate e uomini chiave nei posti giusti, gli uomini della cupola della ‘ndrangheta e i loro riservati sono riusciti a conoscere in anticipo le mosse della magistratura. Come questo sia stato possibile saranno – auspicabilmente – le indagini a dirlo, ma il dato è certo.
SOLO IL NOME Lo rivela – intercettato- l’attuale reggente della cosca Libri, Filippo Chirico. Ascoltato mentre chiacchiera con l’imprenditore Domenico Sartiano, il funzionario ironizza sull’operato della Dda. I magistrati – dice – continuano a perseguire «la cosca Libri… la cosca Condello», ma «questi sono col 41, con l’ergastolo e hanno dieci processi ciascuno». Per lui, «è rimasto il nome… e basta». Però – e qui Chirico smette di sorridere – ci sono anche altre indagini al sesto piano del Cedir. E lo preoccupano decisamente di più.
LA CONFESSIONE DI CHIRICO All’imprenditore rivela infatti di aver saputo che «c’è un Giudice qua a Reggio Calabria”, dice, “che ha centoventi mandati di cattura. Li deve solo firmare”, dice, “però non è che li fa tutti in una volta”, cioè… praticamente, centoventi e lui ne firma centoventi, ne fa venti, trenta, quaranta». Dalle carte dell’inchiesta, non emerge se e in che misura Chirico fosse in possesso di un’informazione corretta. Di certo, si comprende che anche solo l’ipotesi lo preoccupa. «Se non si prende un provvedimento – afferma – noi non contiamo niente». Ecco perché – rivela – si è messo al lavoro.
CHIAVE MASSONERIA Chirico abbassa il tono e le sue parole si fanno meno comprensibili. «L’unica cosa che sto vedendo…(inc) … – gli si sente dire – ma non sono riuscito a trovare la strada, però ho sparso la voce, di… incomprensibile …la massoneria». Dopo la conversazione si fa ancor meno chiara. Gli investigatori che lo intercettano, lo sentono precisare che esistono «tanti tipi», «quella così» e «quelli della massoneria» che sono, invece, in grado di far «saltare». Al netto dei disturbi di segnale per il gip Santoro, «si è, insomma, al cospetto di un’espressa confessione, da parte di uno ‘ndranghetista di tutto rilievo, dell’esistenza di un livello superiore, composto da quelli della massoneria, che sono in condizioni tali da far saltare il livello del potere mafioso».
I SEMPRE BEN INFORMATI L’ennesimo riscontro del lungo filo che lega ‘ndrangheta e massoneria, rendendole ormai inscindibili e mutuamente necessarie. Ma anche la conferma dei benefici concreti che tale legame comporta. Oggi come allora. Al pari di Chirico, anche altri “riservati” si sono dimostrati in grado di gestire informazioni che non avrebbero dovuto avere. È successo con Giovanni Zumbo, in grado di anticipare al boss Pelle parte delle misure previste nell’ambito dell’indagine Crimine, ben prima che venissero eseguite. Ma è successo anche con i Piromalli nel 2007, come racconta l’indagine Cent’anni di storia.
LE LUNGHE ORECCHIE DEI CLAN DELLA PIANA Il mandamento cambia, ma ugualmente i clan dell’élite della ‘ndrangheta reggina – in questo caso i Piromalli – riescono a sapere in anticipo di avere gli investigatori con il fiato sul collo. E come gli altri sanno a chi rivolgersi. Si tratta dell’ex dirigente Dc Aldo Miccichè, oggi a processo, dopo una lunga latitanza perché considerato uomo al servizio del potentissimo clan della Piana, per il quale ha curato i rapporti nel mondo della politica e delle istituzioni. Ai Piromalli, Miccichè ha messo a disposizione non solo una rete di contatti così ampia e variegata da includere ministri, sottosegretari, cardinali, banchieri italiani e vaticani, faccendieri e intermediari finanziari, ma anche i benefit cui tale rete permette di accedere. Informazioni riservate in primis.
«ME LO HANNO DETTO TUCCIO E VIOLA» Quando i Piromalli lo contattano, il faccendiere non ci mette molto a sapere che a Reggio Calabria, in effetti, ci sono approfondimenti in corso sugli uomini del clan. Dice di averne avuto conferma «da personaggio di alto rilievo istituzionale». In un’altra occasione è anche più preciso. Ad Antonio Piromalli assicura di essere stato informato da due magistrati in pensione, Giuseppe Tuccio e Giuseppe Viola. «Persone di primissimo piano – dice il faccendiere – amici miei di vecchissima data… molto importanti… anche se sono in pensione, sanno quello che succede», perché – asserisce – «sono gente legata a me.. mani piedi e culo».
NOMI RIDONDANTI Il motivo non è dato saperlo, ma né gli inquirenti, né il gip riescono a dimenticare che nel corso della storia giudiziaria reggina, tanto il nome di Tuccio, come quello di Lauro sono saltati fuori. E a pronunciarli sono stati uomini del clan. Del giudice Viola ha parlato il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, affermando che il magistrato avrebbe stretto «legami con la massoneria» tramite il fratello Mario, primario ospedaliero.
«TUCCIO E’ UNA BRAVA PERSONA» Il nome di Tuccio invece viene ascoltato nel corso di una conversazione fra uomini di ‘ndrangheta che non sanno, né temono di essere intercettati. A pronunciarlo è il boss Antonino Imerti, detenuto insieme a Pasquale Condello (parente omonimo del boss ndr), e che con lui spende le ore di colloquio per incontrare le rispettive consorti. Condello è sposato con Bruna Nocera, sorella di Giampiera, compagna di Luigi Tuccio, il figlio del noto giudice in pensione. Ai due uomini, la Nocera sta raccontando della recente gravidanza della sorella, quando Imerti la interrompe per dirle che «il magistrato «è stata una brava persona sempre… nei processi… no ma anche quando faceva i processi… se poteva aiutare», chiedendo se il figlio, all’epoca assessore della Giunta Scopelliti sapesse che «i voti glieli date». Un dettaglio che fa riflettere gli investigatori.
CULLA MASSONICA? Imerti non è un affiliato come tanti, non è carne da cannone. È un boss, per lungo tempo vicinissimo al Supremo, e grazie a lui ha avuto accesso in ambienti massonici. Gli stessi frequentati da quel don Paolino De Stefano che annoverava gli Arena, parenti acquisiti del giudice Tuccio, «fra gli intoccabili». E don Paolino era il boss del medesimo casato – riferisce il pentito Consolato Villani e ricorda il gip – che tramite l’avvocato Giorgio De Stefano «negli anni ’80 ha aggiustato vari processi che riguardavano la sua famiglia, in quanto massone molto legato ad ambienti romani». Dichiarazioni che fanno il paio con quelle di collaboratori come Giacomo Lauro, Filippo Barreca, Giuseppe Scopelliti “Cavallino”, Antonio Rodà e Salvatore Annacondia, grazie ai quali è stato possibile affermare con sentenze definitive che Paolo Romeo avesse promesso «ad esponenti dello schieramento imertiano interessamenti istituzionali al fine di “pilotare” in favore di costoro il processo c.d. “Santa Barbara”», ma anche che «i De Stefano erano forti a Roma attraverso la D.C. proprio grazie all’On. Ligato, che era la testa del gruppo De Stefano all’ interno della politica»
INCOGNITA TUCCIO Un cerchio di curiose coincidenze in odor di loggia, che sembra chiudersi con quanto emerso nell’indagine Fata Morgana. Quell’inchiesta non solo ha svelato non solo lo strettissimo rapporto fra il giudice e l’avvocato Paolo Romeo, ma anche la fondamentale collaborazione di Tuccio nel tentativo di condizionare l’iter di formazione della città metropolitana, cui Romeo ha dedicato negli ultimi anni tutta la sua attenzione. Per i magistrati, quella collaborazione non nasce per caso. Anche Tuccio, secondo la Dda farebbe parte dell’asso
ciazione segreta strutturata da Paolo Romeo ed altri per ingerire nella vita politica, economica e sociale della Calabria e non solo. E per il giudice, adesso bisognerà capire a che titolo.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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