REGGIO CALABRIA Non c’è ambito che gli invisibili non abbiano infettato. Non c’è settore in cui per ordine della Cupola non si siano infiltrati. E i servizi segreti non fanno eccezione. Lo ha messo nero su bianco il pm Giuseppe Lombardo in un capo di imputazione che assomiglia ad una dichiarazione di guerra. Nel contestare a Paolo Romeo e a Giorgio De Stefano di essere parte della Santa, il sostituto della Dda reggina sottolinea infatti che è a loro che è toccato nel tempo studiare le strategie per realizzare il programma criminale della Cupola «negli ambiti strategici di maggior interesse – con particolare riferimento a quelli politici, istituzionali, professionali, informativi, finanziari, imprenditoriali, bancari ed economici».
OBIETTIVO, INTELLIGENCE DEVIATA Il primo, l’abito politico, lo ha iniziato a mostrare l’indagine Mammasantissima. Sugli altri, le indagini non si fermano. E che anche l’intelligence che si è venduta alla Cupola sia nel mirino lo ha affermato chiaramente il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, che non più tardi di qualche giorno fa ha detto pubblicamente «Ci manca ancora un segmento sulle istituzioni deviate. E nello specifico, sto parlando dei servizi segreti».
RADICI ANTICHE E le tracce dei rapporti fra i servizi e la Cupola sono antichi. I primi a parlarne sono stati i pentiti Giacomo Ubaldo Lauro e Filippo Barreca, che per spiegare il ruolo di Giorgio De Stefano e Paolo Romeo raccontano: «Freda venne affidato dai Servizi Segreti alle cure del Romeo e dell’avv. Giorgio De Stefano». Avvocato, editore e ideologo evoliano, Franco Freda , dopo una discreta gavetta nel Msi, si converte nel capo carismatico del gruppo padovano dell’organizzazione di destra eversiva Ordine Nuovo. All’epoca dichiarava di dedicarsi all’«educazione delle anime», ma organizzava attentati; invocava la totale disintegrazione del sistema, ma intratteneva torbidi rapporti con uomini dei servizi. Condannato in via definitiva a 15 anni per associazione sovversiva e ricostituzione del partito fascista, sarebbe uno dei responsabili dell’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Ma non è mai stato condannato.
PIAZZA FONTANA Quel massacro – spiega una sentenza della Cassazione del 2005 – è stato realizzato da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», ma entrambi non sono più processabili in quanto «irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari». La responsabilità della strage di piazza Fontana – si legge in quegli atti – «è di Freda e Ventura, anche se assolti nei procedimenti a suo tempo celebratisi a loro carico». Assolto per insufficienza di prove con sentenza passata in giudicato, dopo una condanna all’ergastolo rimediata in primo grado, Freda non è più processabile per lo stesso reato.
LA FUGA IN ODOR DI SERVIZI Nel 1978 però è ancora imputato e le udienze di quel processo si celebrano a Catanzaro per motivi di ordine pubblico. Proprio in occasione di una di quelle udienza, riesce a darsi alla fuga. «Freda – racconta Lauro – fu presentato a Paolo Romeo e all’avvocato Giorgio De Stefano dal dottor Zamboni di Modena e dal generale Tonino Saccà direttore dell’Artiglieria del Museo di Gerusalemme. Questo mi fu detto da Pippo Vernaci, nipote del Saccà. Lo scopo di questa presentazione era di affidare il Freda a Paolo Romeo e Giorgio De Stefano e le persone intorno a loro, e cioè persone di fiducia e responsabili in prospettiva della sua sorte». Zamboni e Vernaci, «entrambi massoni ed appartenenti ai servizi segreti», riferisce Lauro, hanno accompagnato personalmente Franco Freda a Reggio, da dove qualche mese dopo è riuscito ad allontanarsi, fino a raggiungere il Costarica, anche grazie ad un passaporto falso intestato a Mario Vernaci, uno degli uomini cui è stata affidata la gestione di parte della latitanza di Freda più trentacinque anni fa. Lo stesso Vernaci che l’anno scorso si è presentato da Romeo per mendicare l’assunzione di una persona amica alla Perla dello Stretto.
LA SUPERLOGGIA Ma l’arrivo di Freda a Reggio, per il pentito non è stato casuale. In quel periodo – racconta Lauro – «venne costituita una loggia massonica super segreta di cui facevano parte appartenenti alla ‘Ndrangheta, come Paolo De Stefano, l’avvocato Giorgio De Stefano, il defunto Pasqualino Modafferi, Paolo Romeo, Antonio Nirta esponenti dell’eversione nera come Paolo Romeo, Benito Sembianza, Giovanni Criseo, da San Lorenzo poi ucciso, tutto ciò avvenne in coincidenza con l’arrivo a Reggio di Franco Freda. Fondatori ed organizzatori di questa loggia, furono Franco Freda e Paolo Romeo… Dopo la partenza di Freda la loggia passò sotto il controllo di Paolo Romeo». Una seconda loggia, secondo il pentito, veràà costituita nello stesso periodo a Catania ed entrambe – ha raccontato faranno da culla a quel progetto separatista ed eversivo dell’ordine costituzionale, mi
IL LIMA REGGINO E L’OMBRA DEI SERVIZI Tutte circostanze confermate da Barreca, che in più aggiunge «Paolo Romeo.. A mio avviso costui rappresenta l’anello di congiunzione tra la struttura mafiosa e la politica. Volendo fare un paragone potrei dire che è il “Lima” reggino. Il suo ruolo è sicuramente superiore a quello dell’Avv. Giorgio De Stefano ed è stato determinante nelle trattative per il raggiungimento della pace». Ma soprattutto il pentito segnala che «l’avvocato Romeo è massone ed apparteneva alla struttura Gladio. Egli inoltre era collegato con i Servizi Segreti ma non so dire in che modo. Egli però ebbe a dire ad un mio parente che aveva a disposizione i Servizi». Un dato ritenuto assolutamente credibile dai magistrati, che hanno prove documentali di come Romeo sia sempre stato vicino ad Avanguardia Nazionale prima e Ordine Nuovo poi, ma sempre all’ombra di Stefano Delle Chiaie. E che Delle Chiaie fosse uomo dei servizi, lo affermano in molti.
I RAPPORTI DI DELLE CHIAIE CON L’INTELLIGENCE Lo dice una nota del Sid del 23 giugno 1975, in cui si legge che il terrorista nero è «ritenuto in contatto con la Direzione degli Affari riservati del ministero dell’Interno» e che «è conosciuto dal 1968 come informator della Questura di Roma». Lo conferma il capitano del Sid, Antonio Labruna, che dichiara «so che la struttura Avanguardia Nazionale era pilotata dall’Ufficio Affari Riservati retto da Federico D’Amato. Capo di Avanguardia Nazionale era Stefano Delle Chiaie, che era una fonte continuativa dell’Ufficio Affari Riservati». Al riguardo, accuse in tal senso sono arrivate anche dalla galassia nera. Dalle pagine del Candido, Giorgio Pisanò, fra i fondatori del Movimento sociale italiano, si dirige direttamente a Delle Chiaie, all’epoca latitante, intimandogli «Resta dove sei e sta’ zitto. Perché se torni dovrai raccontarci tante cose: certi traffici d’armi, per esempio, con relativa scomparsa dei fondi che ti erano stati affidati, o i tuoi intrallazzi con Mario Melino. Oppure i tuoi rapporti con l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno».
L’AGINTER PRESS E LE SCORRIBANDE LATINOAMERICANE Medesima canzone canta Vincenzo Vinciguerra, che però parla del rapporto di Delle Chiaie con i servizi stranieri. Era l’epoca della latitanza e dell’inquadramento a pieno nell’Aginter press – ufficialmente un’agenzia di stampa, in realtà una vera e propria agenzia di contractor animati dall’anticomunismo – diretta dall’ex ufficiale dellOrganisation armée secrète (OAS) Yves Guérin-Sérac (vero nome Yves Guillou). Come confermato nei primi anni duemila con la de-classificazione di parte dell’archivio Cia, gli uomini dell’agenzia sono stati prestati a dittature tanto latinoamericane come europee – Spagna, in primis – per una serie di efferate operazioni coperte. Per Vinciguerra l’attività di Guerin Serac e delle persone che operavano con lui abbracciava tutti quei P
aesi in cui più forte era il pericolo di un’avanzata da parte dei Partiti e delle formazioni comuniste. Il gruppo –l’ex militante nero – dopo la “Rivoluzione dei Garofani” portoghese si era insediato a Madrid, ed era formato anche da persone ufficialmente ricercate dalle Polizie dei Paesi di appartenenza o comunque emarginate per ragioni politiche, come molti ex-appartenenti all’O.A.S. algerina, ma che in realtà operavano indisturbate sotto la copertura dei servizi segreti dei Paesi occidentali. E per conto di questi portavano a termine una serie di “missioni”. Esempio, l’eliminazione di alcune formazioni guerrigliere marxiste che avevano le loro basi in Costa Rica. Esattamente lo stesso paese in cui la ‘ndrangheta trasferirà Freda, leader di Ordine Nuovo, dopo il periodo di latitanza trascorso a Reggio.
LO SPIONE ZUMBO Ma le tracce del rapporto fra la Cupola e i servizi abbondano anche nella storia recente. Come uomo dei servizi si presentava Giovanni Zumbo, di professione commercialista e amministratore di beni confiscati, pizzicato a sussurrare all’orecchio del boss Pelle anticipazioni sull’indagine Crimine, come a collaborare attivamente al ritrovamento di un falso arsenale il giorno della visita a Reggio Calabria dell’ex Presidente Giorgio Napolitano. Per questo è stato condannato a 11 anni in appello, mentre la sua posizione nell’inchiesta Archi Astrea – che ne ha svelato la storica vicinanza al clan De Stefano – è tornata al vaglio del pm, dopo che gli atti sono stati rispediti in procura. Vicende processuali che il diretto interessato ha seguito in assoluto silenzio, rotto solo in un’occasione. Prima che i suoi legali iniziassero la propria arringa nel processo Piccolo Carro, Zumbo ha chiesto al giudice la parola per affermare «Sono un organo dello Stato».
«IO, UOMO DEI SERVIZI» Un rapporto che aveva rivendicato anche immediatamente dopo il suo arresto, quando al Procuratore capo di Reggio, Giuseppe Pignatone, Zumbo aveva dichiarato non solo di essere dei servizi, ma anche di aver «incontrato l’ex funzionario Mancini che scese a Reggio Calabria, ma dell’argomento preferirei non parlare». Una circostanza confermata solo in parte nel corso dell’istruttoria del processo “Piccolo Carro” da Corrado D’Antoni, ex responsabile Sismi a Reggio, secondo il quale il rapporto fra i Servizi e Zumbo avrebbe goduto dell’avallo di Mancini, con il quale Zumbo si sarebbe effettivamente anche incontrato un’unica volta a Reggio Calabria. Per il maresciallo della Guardia di Finanza Alessio Adorno però sarebbero andati ben oltre: «Zumbo ha avuto più di un incontro con lui qui a Reggio, ma anche a Roma. Più di una volta è andato nella capitale per incontrarlo». Contatti che avrebbero riguardato anche quell’attentato al Comune del 2005 di cui tanto Mancini come il suo ex capo Pollari a Reggio Calabria sembravano essere a conoscenza con largo anticipo: «Il funzionario di Roma, il diretto superiore di D’Antoni – ha detto Adorno – ne era a conoscenza e avrebbe informato Zumbo».
LEGAMI SCIVOLOSI Lo stesso funzionario che salta fuori dalle intercettazioni dell’ex consigliere regionale Franco Morelli, come dalle parziali confessioni dell’avvocato Vincenzo Minasi, entrambi condannati definitivamente per accuse di mafia nel processo sul clan Valle lampada a Milano. «Morelli, – dice Minasi, interrogato dal procuratore Ilda Boccassini – mi disse che aveva delle buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola Pollari. Ora che ho consultato i miei appunti posso dire che l’incontro, se c’è stato ovviamente, con Pollari o qualcun altro dei servizi segreti è da collocare tra il 9 dicembre 2009 e il 21 gennaio 2010. Tenga conto che quando io ho dato i documenti da me falsificati a Giulio Lampada e quest’ultimo li ha portati a Morelli il 18 gennaio, non posso escludere che Morelli li abbia mostrati a qualcuno dei servizi o comunque allo stesso Pollari dal 18 gennaio al 21 gennaio».
«PARTE DI UN SISTEMA» Di Pollari o Mancini, lo spione – considerato oggi dai magistrati uno dei probabili riservati al servizio della Cupola – non ha mai inteso dare alcuna indicazione. Ma qualcosa – intercettato – se l’è lasciata sfuggire. Ascoltato a casa Pelle, Zumbo racconta al boss «ho fatto parte di… e faccio parte tutt’ora di un sistema che è molto, molto più… vasto di quello che… ma vi dico una cosa e ve la dico in tutta onestà..Sunnu i peggiu porcarusi du mundu!».Intercettato dalle cimici degli investigatori, durante un colloquio con la moglie nel carcere di Opera, Zumbo confessa invece alla moglie, Maria Francesca Toscano «Io lavoravo per lo Stato», snocciolando uno dopo l’altro i nomi di Corrado D’Antoni e dell’allora suo diretto superiore Marco Mancini a riprova della sua “appartenenza”. Ma soprattutto – rivela in quell’occasione – «sono sempre stato uno che ha lavorato… ha lavorato con loro, gli ha fatto le misure di prevenzione».
IL SILENZIO DI ZUMBO Ed è per questo, dice l’ex commercialista che «non posso toccare determinati argomenti… perché sennò smuovo pure…». I verbali di quel colloquio sono frammentati e costellati di omissis, lo stesso Zumbo sembra aver timore di pronunciare il nome di un uomo che scrive su un foglietto e mostra alla moglie che si limita a esclamare «Lui!». Personaggi importanti che hanno bisogno di essere tutelati con il silenzio: «Devi capire che se io sono qua dentro è perché pure non voglio mettere in mezzo determinate persone, e tu mi dici (incomprensibile) cioè se no io lo dico (incomprensibile) perchè mi hai portato con questo … allora stai pensando male di me… omissis…».
LA BOMBA A PALAZZO SAN GIORGIO Zumbo si sente un uomo delle istituzioni e per questo non può e non vuole parlare. Con alcuni personaggi delle istituzioni ha avuto un rapporto – a suo dire – prolungato nel tempo. Ma su quale sia stata la causa – se mai c’è stata – della rottura di tale rapporto, nonostante le pesantissime condanne rimediate, continua a mantenere il più stretto riserbo. Un silenzio che i magistrati che indagano sulla pista aperta dell’inchiesta Mammasantissima potrebbero sollecitarlo a rompere. Come confermato dal procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, l’ordigno realizzato con tre panetti di tritolo confezionati con un nastro adesivo ma privi di innesco, trovato nell’ottobre del 2004 in un bagno del Comune di Reggio Calabria quando Giuseppe Scopelliti era sindaco, non è stato altro che una “trovata” di Romeo e della Cupola. Doveva servire ad un duplice scopo: rilanciare la popolarità di Scopelliti negli anni in cui toccava il minimo storico, incoronandolo amministratore bersaglio della ‘ndrangheta, ma anche servire da monito a un riottoso Scopelliti. Obiettivi raggiunti, svela l’inchiesta Mammasantissima, che però non esplora ancora quanto messo a verbale sull’episodio dall’ex numero due della Dna, Alberto Cisterna.
LE RIVELAZIONI DI CISTERNA Chiamato a testimoniare al processo Do ut des, il magistrato ha raccontato come attorno al 2004 i servizi abbiano lavorato per un lungo periodo gomito a gomito con la Dda di Reggio Calabria. Il ritrovamento dell’esplosivo nel Palazzo comunale di Reggio Calabria sarebbe una di queste. «Anche quell’operazione – afferma in aula Cisterna – testimonia in qualche modo la connessione fra la Procura di Reggio Calabria e il Sismi, perché vede schierati a Reggio, in campo, negli uffici di Procura, il dottor Mancini e gli uomini di punta della sua divisione». Una pagina ancora oscura della città, su cui le parole di Cisterna gettano ulteriori ombre «perché – spiega – a Vigna (all’epoca capo della Procura nazionale) la collocazione dell’esplosivo fu anticipata di parecchi giorni da un pubblico ministero. Il procuratore nazionale preoccupato convocò me e il dottore Macrì. Io dissi al procuratore che se non si era in grado di prevenire la cosa, l’avremmo rinvenuto ex post». A firmare le tre informative con cui il Sismi ha – nell’ordin
e – permesso di far rinvenire i panetti di tritolo, informato che l’ordigno, pur senza innesco, sarebbe esploso la mattina successiva e segnalato che Scopelliti fosse in pericolo di vita è stato l’ex numero due del Sismi, Marco Mancini.
IL COMANDANTE BALESTRIERI Ma che i servizi e la Cupola fossero in rapporti lo ha messo a verbale anche il pentito Cosimo Virgiglio. Massone di alto grado, per anni intermediatore economico e finanziario dei Molè, il collaboratore già in passato ha parlato del “comandante” Giorgio Hugo Balestrieri. A quanto si sappia, Virgiglio si sarebbe limitato a raccontare come Balestrieri e i suoi soci – Angelo Boccardelli, segretario dell’ex ambasciatore di San Marino (assolto dalle accuse), Giacomo Maria Ugolini, gran maestro della loggia del Titano, e Giuseppe Fortebracci (morto prima della conclusione del processo) – abbiano messo a disposizione del clan una sontuosa struttura alberghiera di Monte Porzio Catone, in provincia di Frascati. Per la vicenda, Balestrieri è oggi sotto processo, ma negli anni della sua lunga latitanza più volte ha mandato messaggi alla Dda reggina. Tramite il suo legale, negli anni passati “il comandante” ha comunicato ai magistrati – di essere un agente entrato in contatto con persone sospette solo perché impegnato in un’operazione di intelligence per conto di un organismo, mai meglio specificato. Una versione cui i pm non hanno mai creduto, ma che ha aggiunto ulteriori tasselli di ambiguità ad un personaggio dalle innumerevoli sfumature.
TRA LA P2 E IL ROTARY NEW YORK Ufficiale della marina militare dal 1963 al 1981 – come lui stesso indica orgogliosamente nel suo profilo Linkedin – Balestrieri sarebbe uno degli affiliati alla loggia P2 di Licio Gelli, con tessera numero 907, smascherato dalla perquisizione del marzo 1981 a Castiglion Fibocchi. Stando a quanto avrebbe riferito il faccendiere Elio Ciolini – divenuto noto per il suo presunto coinvolgimento nelle indagini sulla strage di Bologna –, Balestrieri farebbe parte anche della loggia riservata “Montecarlo”, «un potentato economico – si legge nella relazione conclusiva della commissione – dominato dalle personalità di Andreotti, Agnelli, Calvi, Monti, Ortolani, Gelli e dal capo del gruppo editoriale Rizzoli e vari altri distinti fratelli fondatori, esecutivi e attivi». Per le diverse Procure che si sono ritrovate a indagare, il “comandante” per lungo tempo avrebbe lavorato come agente dei servizi segreti americani in Italia, o meglio in Calabria, nonostante dal 1981 fosse formalmente residente a New York, dove si occupa di tecnologie militari e di sicurezza ed è uomo in vista nella comunità, tanto da figurare da oltre vent’anni come vice presidente del Rotary club della città. Ma stando a quanto emerso dalle indagini, Balestrieri non avrebbe mai reciso i contatti né con l’Italia, né con la Calabria. E proprio qui, il pm Roberto Di Palma ne ha scovato le tracce braccando gli uomini del clan Molè finiti al centro dell’inchiesta Maestro, che oggi potrebbe finalmente fare piena luce sul “ruolo” del comandante e sui suoi rapporti con i Molè.
IL MISTERO DEL CRISTO LIGNEO Ma i rapporti pericolosi con le ndrine della Piana di Gioia Tauro non sono l’unico mistero legato alla figura di Balestrieri. Dalle mani di Balestrieri, o meglio dalla fondazione che governava insieme al conte Giacomo Maria Ugolini, ambasciatore della Repubblica di San Marino presso Giordania ed Egitto e rappresentante della Gran Loggia dell’Oriente, morto nel gennaio 2006i – stando ad alcune ipotesi – sarebbe passato anche quel Cristo ligneo attribuito a Michelangelo sparito nel corso delle perquisizioni. Una statua preziosa – per alcuni chiave di un fantomatico “Codice Michelangelo”, messaggio esoterico nascosto per secoli, per altri una sorta di Santo Graal della storia dell’arte, per altri ancora un semplice falso – di cui Balestrieri avrebbe affermato di essere in possesso, ma di cui non ha mai rivelato l’ubicazione.
PARLA VIRGIGLIO Allo stato, non è dato sapere se il pentito Virgiglio abbia riferito qualche particolare in più sul ruolo di Balestrieri. Ma una traccia c’è. Fra gli argomenti su cui il pentito ha riferito nel corso di uno dei più recenti interrogatori del pentito – secondo quanto si legge nelle carte d’indagine Mammasantissima- c’ è anche la « disponibilità della carta coranica di Maometto, del Cristo ligneo di Michelangelo e della stella ebraica a sei, il quale era il simbolo vivente della unitarietà delle religioni». Al riguardo non viene fornito alcun particolare e tutto – al momento – rimane sotto stretto riserbo. Ma è stato proprio Virgiglio, riascoltato negli ultimi mesi, a confermare l’esistenza di una componente riservata della ‘ndrangheta, impastata di massoneria e di cui farebbero parte anche uomini dei servizi.
LA CUPOLA Un contesto che Virgiglio può descrivere bene perché ne è stato parte, tanto da conoscere in dettaglio il “riservato” dei Piromalli e gli uomini – incluso un parlamentare, il cui nome rimane per adesso top secret – che per il clan si occupavano dei contatti occulti con la politica, l’economia e le altre mafie. « È importante sottolineare– spiega con calma al pm Lombardo – per farle capire come materialmente è avvenuta l’interrelazione tra la componente massonica e quella tipicamente criminale che il “varco” – che nel gergo massonico è riferito alla “breccia di Porta Pia” – è costituito da quella nuova figura criminale che è identificata con la Santa». Ed è – aggiunge – «attraverso quel “varco” costituito dai santisti (che sono rappresentati da soggetti insospettabili), il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa, per quello che io ho vissuto e percepito». Una terra di mezzo, impastata di ‘ndrangheta e massoneria, in cui anche i servizi hanno trovato casa. Con che ruolo e che scopo – ha promesso il procuratore capo Federico Cafiero de Raho – sarà la Dda di Reggio Calabria a tentare di svelarlo.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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