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Il nuovo schiavismo sotto i nostri occhi distratti

Almeno una volta l’anno – ma da oltre 50 – si riparla di caporalato. Questa volta c’è voluto il caso della Piana di Sibari, dove i lavoratori erano costretti a vivere peggio delle bestie in stalle …

Pubblicato il: 07/08/2016 – 7:30

Almeno una volta l’anno – ma da oltre 50 – si riparla di caporalato. Questa volta c’è voluto il caso della Piana di Sibari, dove i lavoratori erano costretti a vivere peggio delle bestie in stalle e porcilaie. Ed in (in)immaginabili condizioni igienico-sanitarie senza essere padroni di se stessi ma della figura ignobile del caporale che tratteneva, quando li avevano, i documenti per non farli fuggire e, peraltro, li costringeva a lavorare senza idonee misure di sicurezza, con paghe miserrime e con (forse) un pasto caldo al giorno. C’è la voluta la Guardia di finanza, che peraltro svolge da sempre un’opera meritoria e non solo in questo settore, per portare ancora una volta alla luce questo ennesimo fenomeno del caporalato che in Calabria ha origini quasi cinquantennali, senza che mai si sia riusciti a risolverlo, una volta per tutte. Le indagini effettuate sulla Ss 106, dove oltre alle prostitute si trovano camion pieni extracomunitari che all’alba di ogni giorno la attraversano per finire a lavorare illegalmente ed a costo bassissimo. Il fatto che ad occuparsene sia il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, fa ben sperare. In passato non è stato così. Due o tre giorni di cronaca e di commenti, alcune prese di posizione istituzionali, di associazioni cattoliche e non, poi tutto ripiomba nel dimenticatoio. I caporali sono sempre esistiti e non finiranno mai di proseguire nella loro azione di sfruttamento. Una volta, forse, più “coperti”, oggi con maggiore discrezione, ma il risultato non cambia. Vivono sulle spalle di poveri lavoratori, una volta esclusivamente italiani, oggi a maggioranza stranieri. Eppure basterebbd intensificare i controlli, solo per fare qualche esempio, nella piana di Sibari o in quella di Rosarno-Gioia Tauro, a seconda delle produzioni agricole, e non sarebbe molto difficile trovare quanti vivono – e bene – sulle spalle di quanti si caricano di fatica. Si stima che nella piana di Sibari siano almeno seimila i braccianti – nel senso letterale del termine, persone usate perché dotate di braccia – che vivono sotto un caporale (ai tempi della seconda guerra mondiale c’erano i kapò) – sfruttate, sottopagate, al nero, senza orari, senza sicurezza, costrette a chiedere al caporale quanto serve loro per trascorrere l’intera giornata di lavoro. Compreso il trasporto dal luogo di abitazione alle campagna di raccolta di pomodori, pesche, nettarine, arance, mandarini, olive. Si fanno trovare in mezzo alla strada – non certo in centro – per evitare di essere visti e così uomini e donne vengono caricati all’alba sui camioncini, quasi sempre seduti su sacchi di iuta, cotti dalla fatica, morti di sonno e (tras)portati nel terreno dove vengono usati come mazze di fatica. Una condizione che definire di puro schiavismo non rende appieno l’idea, di degrado allo stato puro al quale, se vogliono guadagnare venticinque euro al giorno, dopo dieci o dodici ore di lavoro, devono sottostare. Prendere o lasciare o morire di fame, freddo, sonno. Con i calabresi delle piane di Sibari e Rosarno, ci sono i migrantes che vengono dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio, dal Senegal, dal Marocco. Un esercito invisibile di macchine in pelle ed ossa che pur di non sottostare ai regimi dei loro Paesi di origine, è costretto a subire le angherie dei caporali. C’è, tra questi, chi fornisce a spese del lavoratore, un tozzo di pane, un tugurio. C’è chi preferisce viaggiare a farsi trasportare come bestiame, pur di far rientro a casa, almeno per incontrare marito e figli per poche ore. Ma si tratta di tendopoli, tuguri, cartoni? Che importa, rispondono. Almeno non corriamo i rischi dei nostri Paesi, ai quali siamo sempre legati, ma nei quali non si può più vivere.
Non è difficile riconoscere questi sventurati perché, sulla Ss 106 o sulla Ss 18, li vedi più o meno in fila, in attesa del caporale col camioncino che li conduce, come un tempo i carri bestiame, sul luoghi di lavoro. Ti piange il cuore, ma non sai che fare. La fretta, i tuoi impegni, il menefreghismo non aiutano il tuo fratello dalla pelle diversa dalla tua, ma – in gran parte – col cuore caldo di affetto e di miseria. Due ero l’ora? Ma c’è qualcuno che ci pensa, Caritas a parte? A parere dei ministri Martina e Orlando si devono coinvolgere tutti gli attori delle filiere produttive, il mondo del lavoro e del sindacato, la grande distribuzione organizzata. Un altro fronte d’azione, per i due uomini di governo, è il rafforzamento delle norme di contrasto al caporalato, che è già, di per sé, reato di mafia. Ma, siccome fatta la legge si trova l’inganno, occorre pensare alla possibile estensione delle misure di prevenzione patrimoniale antimafia a chi si avvale di caporali, alla responsabilità dell’impresa che ne trae beneficio “a valle” e all’avvio di programmi specifici per sostenere ed accompagnare il lavoratore che ha il coraggio di denunziare il proprio caporale. Il governo è impegnato? I due ministri lo confermano. I fatti sono, però, sempre lì, ostinati come sempre. E parlano, pur essendo muti, per paura.

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