LAMEZIA TERME Pochi punti fermi e tante ipotesi stanno circolando nelle ultime ore sulla morte di uno degli avvocati più affermati della regione, il cui nome, nonostante la giovane età, era in progressiva ascesa anche a livello nazionale. Francesco Pagliuso, 43 anni, è morto alle 22:30 di martedì 9 agosto a bordo della sua automobile, un suv Volkswagen, mentre rientrava a casa, in via Marconi a Lamezia Terme.
I numeri del giallo con i quali gli investigatori stanno facendo i conti girano incessanti dalle ultime 72 ore. Tre sono i colpi esplosi a poche ore dalla mezzanotte. Due gli uomini inquadrati dalle telecamere, la vittima e il suo assassino. Nessun bossolo sul luogo del delitto.
Le telecamere installate all’interno del giardino della villa segnano l’ora e inquadrano una figura che si avvicina alla macchina non appena l’avvocato apre la portiera ed esplode tre colpi. Il killer non è incappucciato, non ha il volto travisato ma le immagini delle telecamere aiutano poco gli investigatori perché la figura non ha un volto. Molto probabilmente appare di spalle e si allontana senza mai mostrare il viso. Sul mancato ritrovamento dei bossoli esistono due scuole di pensiero. Una è che la pistola usata dal killer sia una pistola a tamburo, il classico revolver, un’arma un po’ “vintage” che non lascia bossoli con la quale si ha necessità di colpire da fermo (com’è avvenuto) perché non ti permette di sparare più colpi in movimento. L’altra ipotesi è che l’assassino prima della fuga abbia raccolto i bossoli finiti a terra dopo avere infranto il finestrino dal lato passeggero. Il killer si sarebbe, quindi, preso la briga di fare il giro della macchina e cercare i bossoli caduti a terra. Forse perché l’arma era registrata e rintracciabile, già usata in altri delitti? Non era, come spesso avviene nei delitti di mafia, una pistola destinata ad essere gettata o distrutta? Sarà l’esame balistico sui proiettili a dare risposte sul tipo di pistola usata. Gli spari, tutti andati a segno, sono avvenuti da distanza molto ravvicinata e il delitto è stato organizzato in maniera meticolosa, facendo un buco nella rete per permettere una via di fuga nel momento in cui il cancello automatico si fosse chiuso. Un dato sembra certo: il sistema d’allarme era stato disattivato per permettere al cane dell’avvocato, che al momento del delitto si trovava con lui in macchina, di poter scorazzare tranquillo in giardino. E anche un altro dato è assodato: la famosa pistola che pare Pagliuso possedesse e avesse mostrato ad alcuni colleghi, non l’aveva con sé tre giorni fa. Ma Francesco Pagliuso non era uno sprovveduto e gestiva la sua sicurezza. Le telecamere in casa e allo studio legale ne sono una prova e anche il fatto che avesse fatto staccare la corrente dal pulsante interno che apre il cancelletto della villa, troppo vicino alla ringhiera e raggiungibile dall’esterno. Precauzioni che qualsiasi quotato professionista prenderebbe. Un’altra domanda cerca risposta in questo giallo: l’uomo inquadrato dalle telecamere era da solo? C’era qualcuno che lo aspettava fuori dalla villa o che non è stato ripreso dalla videosorveglianza? Anche questo non è dato da poco nell’interrogativo se si tratti di un delitto di mafia, ai danni di un penalista presente in molti dei più grandi processi di ‘ndrangheta, o meno. In genere, infatti, nei delitti di mafia, raramente viene mandato un uomo solo a compiere il colpo, c’è sempre un “compagno” che assista e controlli che tutto proceda come deve. Ma queste, al momento, sono solo ipotesi su un delitto.
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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