La revisione della Costituzione all’esame referendario prevede la cancellazione definitiva dall’ordinamento delle Province, impegnate sistematicamente a generare costi, di personale e di gestione, assolutamente spropositati in relazione ai loro compiti istituzionali di manutenzione delle loro strade (in stato di assoluta precarietà), di impianti scolastici (la maggior parte dei quali inadeguati sotto il profilo della tenuta sismica) e di tutela ambientale (perseguita e conseguita sul piano meramente teorico) nonché delle numerose e dispendiosissime sagre più o meno paesane.
Come ogni cambiamento, anche questo – letto in stretta combinazione con la riforma Delrio (L. 56/2014) – genera facili entusiasmi ovvero assurde conservazioni da parte di tutto coloro che vi hanno comunque “bivaccato”. Non solo. Accelera una creatività, spesso pericolosa.
Le fusioni dei Comuni
È quanto sta accadendo nella nostra regione ove si fa, da ultimo, la corsa ad interessarsi, anche improvvidamente, delle politiche aggregative e di quelle di risanamento economico. Due temi difficili da affrontare, dei quali l’UniCal si sta occupando da oltre un triennio a un livello scientifico riconosciuto su scala nazionale (e non solo).
Il problema non è, tuttavia, quello di averne parlato per primi bensì di esercitare al meglio siffatte politiche, dalle quali dipenderà il futuro istituzionale calabrese. Sbagliare sulla scia di superficiali entusiasmi ovvero allo scopo di catturare un’inutile primogenitura politica (che è quello che sta accadendo) sarebbe un errore madornale. Da un interesse delle istituzioni deputate ad affrontare la problematica delle fusioni pari allo zero pressoché assoluto non si può, infatti, accelerarlo solo perché le stesse sono divenute di moda, tanto da farle divenire l’argomento del giorno.
In una tale ottica, la Regione presenta uno grande deficit di sensibilità, atteso che si è finora limitata ad approvare, peraltro in modo del tutto asettico, la dovuta legge-provvedimento in materia di fusione di comuni (l’interessante Villa Brutia promossa da cinque giovani sindaci). Lo ha fatto senza un preventivo approfondimento sull’importanza che un tale strumento, di estrazione civilistica, rappresenta nel processo di riordino del proprio sistema autonomistico regionale. Nel modo di divenire finalmente Regione capace di ridisegnare – in una previsione prospettica e all’insegna dell’efficienza, dell’efficacia e della utilità economica – la propria rete delle istituzioni locali, cui affidare tante delle proprie funzioni amministrative, sì da rendere più prossimi ai cittadini i relativi servizi, in ossequio al principio della sussidiarietà verticale (art. 118, c. 1, Cost.). Una occasione, questa, che potrebbe essere funzionale a generare un sensibile incremento del Pil municipale, esaltando l’attuazione dell’altra tipologia di sussidiarietà, cosiddetta orizzontale (art. 118, c. 4, Cost.), che consentirà a tanti cittadini «surroganti» di ivi esercitare attività imprenditoriali di autentico interesse generale. Un obiettivo raggiungibile a seguito dell’applicazione della neodisciplina, attuativa della riforma Madia, sulle società a partecipazione pubblica (approvata definitivamente dal Governo il 10 agosto scorso) delle quali saranno in tantissime ad essere obbligatoriamente dismesse.
L’area vasta
Stesso ritardo istituzionale si è registrato sino ad oggi nell’affrontare, malgrado l’imminenza del voto referendario, il tema del coordinamento delle autonomie comunali che si renderà (finalmente) orfano delle inutili Province.
Ci si riferisce alla riorganizzazione concreta del sistema degli enti locali attraverso lo strumento della cosiddetta area vasta. Meglio, dell’attribuzione delle funzioni ad essa rinviabili, al netto di quelle esercitabili, ope legis, dalla Città metropolitana di Reggio Calabria. Una neoistituzione che – si badi bene – non è un ente locale e della quale si fa, da tempo, un uso propositivo improprio con indebita partecipazione al dibattito soprattutto dei non «addetti», con i sindaci messi da parte, nonostante espressione autentica del fabbisogno di esigibilità dei servizi pubblici locali, allo stato appena percepibili dalla popolazione.
Insomma, siamo alle solite: da una parte, una politica che farebbe meglio ad approfondire le problematiche prima di parlarne inconsapevolmente; dall’altra, i partiti che registrano ritardi nella formazione di loro quadri, nei quali rintracciare gli amministratori del domani (ma anche di oggi).
Il ruolo della Regione
Per fare un discorso serio, così come i calabresi meritano, occorre che lo Stato legiferi, compiutamente e in via esclusiva, in materia di associazionismo comunale e in tema di coordinamento della finanza pubblica. Non solo. Che la Regione faccia altrettanto in tema di riordino del sistema autonomistico locale e di relazioni finanziarie tra enti territoriali per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali afferenti alla finanza pubblica.
Un’attività legislativa complessiva cui dovere adempiere al meglio, a mente (si spera) di quanto disposto nella revisione costituzionale al vaglio referendario che cancellerebbe le attuali dannose frammentazioni.
In una tale ottica, verrà a porsi il problema della concreta attuazione della legge Delrio, soprattutto in materia di area vasta, che definisca finalmente cosa debba essere nella pratica, sgombrando ogni tedioso fraintendimento con le «cessate» amministrazioni provinciali. Ciò successivamente alla prevalenza (si spera) del SI al prossimo referendum costituzionale, senza il quale occorrerà ricominciare tutto da capo.
Le aspettative e gli auspici
A titolo meramente dialettico, ben vengano nel frattempo utili iniziative, così come quella in via di esperimento referendario locale (Trenta, Casole Bruzio, Spezzano Piccolo, Pedace e Serra Pedace). E ancora. Abbiano un buon iter quella riguardante Corigliano e Rossano (opportunamente da allargare alle altre importanti realtà limitrofe) e un buon inizio la fusione presilana (Rovito, Lappano, Zumpano, San Pietro in Guarano e Castiglione Cosentino), recentemente proposta dal giovane segretario regionale dei Gd, e quella silana Doc, sulla quale il comune di San Giovanni in Fiore, pare, voglia mettere concretamente il proprio cappello.
Il tutto, ben considerando la compatibilità dei loro bilanci, la consapevolezza del loro modo di voler costruire un futuro di insieme istituzionale e l’esistenza di un progetto «industriale» capace di generare un diffuso maggiore Pil locale. Non disdegnando, in proposito, dal tenere nel dovuto conto nella elaborazione dello strumento progettuale delle facilitazioni derivanti del 40%, per un decennio, dei finanziamenti goduti nel 2010 e dello sblocco del turn over rispetto agli originari organici.
Ma soprattutto cominci la Regione ad affilare le proprie «armi» e, quindi, a fare le cose serie in termini di programmazione del proprio sistema autonomistico (e non solo), nei confronti del quale, a mente delle modifiche appena intervenute sulla disciplina del «pareggio di bilancio» (legge 243/2012), avrà un bel da fare per garantire gli investimenti, propri e degli enti locali, con ricorso all’indebitamento relativo (art. 119, c. 6, Cost.).
*docenti Unical – Fondazione TrasPArenza
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