Siamo certi che l’uso del burka, o nella versione prendisole “burkini”, costituisca il subdolo tentativo dei musulmani di imporre la religione dell’Islam alle popolazioni che, alcune obtorto collo, li accolgono e li ospitano? Si è veramente in presenza di una guerra ideologica e culturale che ci viene dichiarata in quasi tutte le città e, d’estate, anche sulle assolate spiagge della Penisola?
Correndo indietro nel tempo e la memoria mi porta alla fanciullezza e la mente si affolla di tanti ricordi, uno dei quali mi accompagna nei tanti stabilimenti balneari in riva allo Stretto, sulla costa siciliana. Mi appaiono, così, le donne di allora con i loro “costumi” da bagno molto simili, se non identici, ai “burkini” con i quali trascorrevano le mattinate sulla sabbia sia che prendessero (si fa per dire) il sole, sia che si immergessero nelle fresche acque che ci dividevano dal Continente. Addirittura, nei lidi nei quali l’ortodossia della decenza veniva osservata in modo ossessivo, era prevista persino una separazione della spiaggia riservata alle donne da quella degli uomini.
Niente commistione, dunque, ma soprattutto l’uso di costumi da bagno castigati: signore con abito lungo ai polpacci di colore scuro se sposate e chiaro per le signorine; gli uomini con salopette di lana a mezza coscia. Nonostante ciò mai ad alcuno, neppure alle “standine” del Nord alle quali il datore di lavoro contribuiva al pagamento di una vacanza al mare, è venuta a balenare l’idea di accostare quelle tradizioni con un pretesto religioso. Al più poteva essere solo motivo di ilarità, ma neanche molto evidente. Quel “fastidio” visivo era interpretato come il retaggio di una tradizione che ancora nel Sud del Paese resisteva alla rivoluzione dei costumi e nessuno pensava di rifiutarsi a farsi il bagno avendo accanto donne eccessivamente coperte.
Religione a parte, c’è da chiedersi se un simile atteggiamento di rifiuto non corrisponda ad una mai sopita idea di “superiorità”, ad un sentimento ancora presente nel nostro inconscio che divide i popoli secondo il grado di cultura di ciascuno. Ciò che certamente manca è la tolleranza assieme alla capacità di sapere attendere che si realizzino i processi di integrazione in maniera naturale, senza forzature e senza condizionamenti. Solo allora, per esempio, si potrà capire che non è l’abito a fare la differenza, ma ciò che contiene.
Sono trascorsi molti decenni per adottare il bikini considerato fino a quel tempo oggetto di perdizione; perché pretendere che gli altri le cui tradizioni, probabilmente anche per responsabilità delle comunità occidentali, non hanno il diritto di arrivarci con i loro tempi e intanto resistono alla nostra idea di modernità. Pretenderemmo che appena giungono sul suolo europeo dovrebbero cambiare i loro costumi e i loro usi che, a pensarci, non producono danni ad alcuno. Questo modo di volerci imporre, di pretendere di entrare nella loro vita quasi con violenza verbale, questo corsa alla sopraffazione ideologica, invece di affrettare i tempi di una integrazione, li dilata.
Si vuole che le donne islamiche debbano rispettare le regole del paese in cui giungono. Quali regole? Quelle di non indossare il burka sulla spiaggia? Ma davvero si ritiene che evitare per legge l’uso di un capo di abbigliamento acceleri il processo di integrazione? Crederci è uno schiaffo alla civiltà che, si badi, nessuno ci ha imposto ma che abbiamo guadagnato con i nostri mezzi, attraverso lo studio, le letture, il confronto, il bisogno di migliorarci. Lasciamo che anche gli altri, quelli meno fortunati di noi, facciano il loro cammino sapendo di essere compresi.
Potrebbero essere i nostri figli, i nostri nipoti o i loro figli a constatare l’avvenuto completamento del loro percorso evolutivo che è un processo inarrestabile ma che ha bisogno di tempo per realizzarsi.
*giornalista
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