REGGIO CALABRIA Non uno Stato controllato dai clan, ma uno Stato dei clan, da governare senza necessità di nascondersi. Era questo il progetto che le mafie avevano messo in cantiere alla fine degli anni Ottanta, svelato solo qualche anno dopo dal collaboratore Leonardo Messina al giudice Paolo Borsellino. Una pista che forse è costata la vita al magistrato e che altri – dopo la sua morte – avrebbero potuto continuare a battere. Ma è caduta nel dimenticatoio. Gli stessi parlamentari della commissione antimafia, all’epoca guidata da Luciano Violante, dopo l’audizione di Messina hanno preferito non indagare oltre. Lo stesso hanno fatto – per diversi anni – i colleghi che si sono messi in coda dietro al feretro di Borsellino per rendergli omaggio. Nel frattempo la pista si è raffreddata.
IL FILO ROSSO Che quelle di Messina non fossero parole in libertà, ma avvertimenti gravi e seri su un imminente pericolo per la struttura stessa della Repubblica lo hanno però confermato diversi pentiti, in momenti diversi, con procure diverse. A tentare di comporre un quadro univoco è stato Roberto Scarpinato, che da procuratore aggiunto di Palermo per primo ha intuito e ha cercato di ricostruire il progetto delle mafie di prendersi un pezzo di Italia. Un’indagine poi archiviata per necessarie ulteriori investigazioni, oggi recuperata, valorizzata, attualizzata e integrata con un obiettivo: arrivare al cuore di Cosa Unita, la Cosa Nostra.
LA CUPOLA Non si tratta – e il pentito Messina lo ha spiegato bene – della mafia siciliana, ma delle élites strategiche di tutte le mafie che da decenni si coordinano e lavorano insieme per prendersi il Paese. Sul piatto hanno messo le enormi riserve di liquidità e capitali che negli anni hanno accumulato, ma soprattutto quel patrimonio di contatti, relazioni, favori, “obblighi” che nel tempo hanno costruito, insieme all’esercito di riservati pronti a spenderli sui tavoli opportuni, al momento adeguato. E soprattutto a riscuotere. Della banca del potere, le élite delle mafie sono il primo socio finanziatore. Grazie ai riservati hanno accumulato quel capitale che permette loro di sedersi ai tavoli che contano – della politica, dell’economia, delle istituzioni – come interlocutore necessario. Ma c’è stato un inizio a questa scalata. Ed è l’inchiesta “Mammasantissima” del pm Giuseppe Lombardo ad iniziare a ricostruirlo.
LE VOCI DELLA COSA UNITA Tra gli atti di indagine, ci sono infatti le dichiarazioni dei – tanti – pentiti che nel corso del tempo hanno svelato il progetto eversivo della Cosa Unita. Sono uomini dalla caratura criminale diversa, dal ruolo diverso, che in molti casi non sono mai stati in contatto fra loro. Ma le loro rivelazioni si incastrano e coincidono, componendo un quadro tragico per lo stato della democrazia. E non solo al Sud. Ma in tutto il Paese. Leonardo Messina infatti non è il solo ad aver raccontato – in dettaglio – ai magistrati del progetto delle mafie di spezzare l’Italia. Medesima canzone hanno cantato molti pentiti calabresi, ma anche – e in dettaglio – un altro collaboratore siciliano, Gioacchino Pennino.
LE RIVELAZIONI DI PENNINO Figlio e nipote di mafiosi di rango – il padre Gaetano “pesava” quanto Tommaso Buscetta, lo zio Gioacchino era un importante uomo d’onore di Brancaccio – chirurgo di professione, massone e politico per volere del clan, scala la Dc siciliana, prima di essere arrestato. Nel ’94 chiede di collaborare con la giustizia e con le sue dichiarazioni squarcia il velo dei rapporti fra mafie, massoneria e istituzioni. In dote, porta non solo il lavoro fatto personalmente per i clan, ma anche tutto quello che nel tempo gli è stato rivelato dal padre, ma soprattutto dallo zio omonimo. Uno di quelli che ha visto nascere – e forse ha tenuto a battesimo – la Cosa Unita.
«SONO COSA SOLA» «Confermo che mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato da latitante, negli anni 60′, ospite dei Nuvoletta nel napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile».
ALL’OMBRA DI DON ROCCO Un gruppo di potere di cui facevano parte uomini di peso della politica e dell’imprenditoria calabrese. «Mi risulta, per averlo appreso da tale Martorano (si tratta di un imprenditore calabrese) – spiega il collaboratore ai magistrati – che il Musolino Rocco unitamente all’Onorevole Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott. Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, facevano parte di un comitato d’affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva come mi pare volesse fare intendere il Martorano, ‘ndrangheta, massoneria e politica». Parole che trovano riscontro nelle dichiarazioni di diversi pentiti calabresi, come pure nell’ordine che a Pennino è stato impartito da Stefano Bontate in persona. Uno dei massimi vertici della mafia siciliana, storicamente – lo dicono i collaboratori, lo confermano le inchieste – in ottimi rapporti con la direzione strategica delle ‘ndrine, prima fra tutti quella dei De Stefano.
IL COMITATO «Pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». Qualche anno dopo, a progetto ormai pienamente in marcia, una proposta analoga gli viene fatta da un altro mafioso di rango.
L’INCONTRO DI LAMEZIA «Sebastiano Lombardo detto Iano – racconta il collaboratore – era uomo d’onore della famiglia di Brancaccio che effettivamente mi propose di andare a Lamezia Terme a questo incontro fra leghe autonomiste. Egli in tale occasione si fece latore di una richiesta dei Graviano che volevano coinvolgermi evidentemente in questo progetto. Ovvio che la stessa circostanza che sia stato proprio Iano Lombardo a parlarmi di questo incontro di Lamezia Terme mi fece comprendere che si trattava di una iniziativa a cui era fortemente interessata la criminalità organizzata non solo siciliana. Confermo che anche il già indicato Donnici doveva partecipare a tale incontro di Lamezia Terme così come riferitomi dal Lombardo. A vostra domanda vi dico che questo Donnici non l’ho mai conosciuto».
PROVENZANO, CIANCIMINO, CANELLA, TUTTI AL LAVORO PER ROMPERE L’ITALIA Pennino però conosceva – perfettamente – altri uomini che hanno materialmente costruito quel “comitato”. Soggetti come Bernardo Provenzano, vicino – racconta il pentito per averlo saputo da Giuseppe Di Maggio, rappresentante della famiglia di Brancaccio fra i 70′ e gli 80′- alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla ‘ndrangheta calabrese, ma anche come Tullio Canella. Per tutti, spiega Pennino, Canella era un democristiano doc, ma dietro le quinte « era animatore del progetto politico, voluto da Leoluca Bagarella, di tipo separatista. In particolare era dirigente a Palermo di “Sicilia Libera”. Cannella manteneva anche la latitanza di Bagarella». Un progetto sostenuto – aggiunge il pentito – anche da Vito Ciancimino. «Mi venne confidato da Giuseppe Lisotta, parente di Vito Ciancimino, oltre che mio collega, con il quale ero in buoni rapporti. All’epoca se non sbaglio si faceva riferimento alla Lega Meridionale».
LA DISCREZIONE DI ZU VIT
O Un dato che anche Tullio Canella, dopo aver iniziato il proprio percorso di collaborazione, non ha esitato a confermare. Ai magistrati spiega anche di averlo incontrato «Avvenne nel corso della mia detenzione presso il carcere di Rebibbia tra luglio e agosto del 95. Io già collaboravo con la giustizia. Ricordo che un giorno, quando le porte di legno delle celle erano aperte, rimanendo chiuse quelle di ferro, nella cella proprio di fronte alla mia vidi Vito Ciancimino. Ricordo che esclamai:” zu Vito!”. Lui mi pregò di non chiamarlo così dicendomi di chiamarlo sig. Ciancimino. Mi chiedete se, come risulta da miei pregressi interrogatori ho parlato della questione delle leghe meridionali con il Ciancimino e vi dico che adesso lo ricordo». E in dettaglio.
INSIEME AGLI “AMICI” «Confermo- dice Canella – che Ciancimino allorquando io gli parlai di Sicilia Libera si mostrò al corrente di questo progetto politico. Il Ciancimino mi disse che questa Sicilia Libera gli appariva una cosa di poco conto, mentre il progetto autonomista più serio era quello ispirato da Bernardo Provenzano, quello della Lega Meridionale nella quale dovevano partecipare tutti i “nostri amici” meridionali tra cui gli amici della ‘ndrangheta calabrese che erano molto influenti». Motivo? A detta di Canella, Ciancimino era convinto del peso e del potere della ‘ndrangheta «in virtù dei suoi rapporti con la massoneria ed i servizi segreti ed io – dice Canella senza esitare – confermo pienamente questa circostanza».
I PANNI SPORCHI DEL GOI Alleanze e progetti che hanno fatto comodo a molti. Ma non a tutti. Proprio a causa dell’infezione criminale che ha progressivamente mangiato le logge, il Gran Maestro del Goi, Giuliano Di Bernardo, ha voltato le spalle alla massoneria. Lo ha spiegato prima al duca di Kent, capo della massoneria mondiale, poi ai magistrati, cui ha rivelato «Seppi dai miei referenti calabresi e non solo, di cui non ricordo i nomi, ma che potrei riconoscere, che all’interno del GOI all’inizio degli anni 90, vi erano soggetti che sostenevano i movimenti separatisti siciliani e meridionali in generale. Reggio Calabria era il centro propulsore, l’origine di tali movimenti autonomisti che trovavano sostegno in numerosi esponenti della massoneria e più esattamente del Goi».
PAESE A RISCHIO Un quadro inquietante e che Di Bernardo si è sentito forse troppo solo per fronteggiare. «Ero molto preoccupato da questa situazione. Nel nord vi era la Lega Nord, a sud si stavano creando questi movimenti separatisti. Vedevo il nostro paese a rischio». L’idea di spezzare l’Italia in due però è stata in seguito abbandonata. Ma i clan non vi hanno rinunciato. Hanno semplicemente deciso di prendersi tutto il Paese. Il metodo lo ha spiegato Antonio Calavaruso, autista storico di Leoluca Bagarella e silenzioso testimone di tutti i suoi incontri.
VOTATE TUTTI FORZA ITALIA «Nell’estate del 1993 il Bagarella portava avanti il progetto di partito “Sicilia Libera”: a tali i discorsi partecipava anche Tullio Canella che aveva quasi una competenza esclusiva in merito: tale progetto venne accantonato poco prima delle elezioni del 1994, dopo un incontro con Brusca Giovanni e Mangano Nino: in quella sede venne deciso di appoggiare tutti Forza Italia». La storia degli anni successivi è quella che i magistrati – in silenzio – stanno ancora scrivendo. Ma in tanti iniziano ad avere paura di guardarsi nello specchio di una Repubblica che da tempo ha smesso di esser tale.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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