REGGIO CALABRIA «Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del Giudice Scopelliti, cui ho già fatto cenno in precedenti verbali». Soldi, affari, sangue, potere. Per spiegare ai magistrati con quale cemento sia stata impastata la Cosa Nuova, la direzione strategica e operativa di tutte le mafie, il pentito Gaetano Costa parte da un omicidio eccellente, da venticinque anni rimasto senza risposta. E che oggi potrebbe assumere nuovo significato alla luce di quanto emerso dall’inchiesta Mammasantissima. L’eliminazione del magistrato di Cassazione Antonino Scopelliti, trucidato da sicari senza nome a Piale di Campo Calabro è stata decisa dalla commissione nazionale delle mafie tutte. Un’acquisizione che permette di mettere in fila e rileggere quanto i collaboratori – tanto siciliani, come calabresi – hanno nel tempo dichiarato sull’uccisione del magistrato. E forse trovare un nuovo filo di Arianna che permetta di identificare i veri mandanti di quel delitto, servito anche per consolidare la commissione nazionale delle mafie.
NUOVO CONTESTO Due inchieste e due processi – ugualmente naufragati – non sono stati in grado di individuare le mani che hanno sparato, né le menti che hanno ordinato di farlo. Ma adesso il fascicolo sulla morte del giudice Scopelliti potrebbe essere riaperto. A suggerirlo sono gli elementi messi agli atti dell’inchiesta Mammasantissima del pm Giuseppe Lombardo, che ha iniziato a dare un nome e un volto alla direzione strategica della ‘ndrangheta, sezione calabrese di una “commissione nazionale”. Una superstruttura che ha messo insieme mafie e massonerie per arrivare al cuore economico, politico e finanziario della Repubblica, immaginata e realizzata tra Calabria e Sicilia, per lungo tempo con base operativa in Lombardia, ma attiva su tutta Italia, almeno dagli anni Settanta.
LA CUPOLA DI GOVERNO È all’interno di quella struttura, spiegano i pentiti, che sono stati discussi diversi omicidi, da quello del figlio di Cutolo all’eliminazione di più di un capo di famiglia riottosa. Ma anche molte morti eccellenti, come quella del giudice Scopelliti. Una violazione delle regole interne che la ‘ndrangheta si era imposta, ma cui l’élite delle ‘ndrine si è piegata – emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori – perché decisa dalla Cosa Unita. Pur di permettere o commettere quell’omicidio, la direzione strategica della ‘ndrangheta è stata costretta a riscrivere le regole di convivenza con grembiuli e poteri, che per decenni hanno permesso all’élite dei clan di vivere una sorta di regime di impunità.
LE RIVELAZIONI DI FIUME A spiegarlo in dettaglio è stato Nino Fiume. Non si tratta di un collaboratore come gli altri, ma di un uomo che ha vissuto gran parte della sua vita criminale gomito a gomito con i fratelli Carmine e Peppe De Stefano. Gli eredi di Don Paolino, il volto della ndrangheta nuova. Per loro, Fiume – storico fidanzato della sorella Giorgia – era quasi un cognato, un fratello acquisito. E per questo Fiume sa. E può raccontare. Lo ha fatto già in pubblica udienza al processo Archi-Astrea, durante il quale ha spiegato che per l’omicidio del giudice sono stati scelti due killer professionisti, i migliori in città, scelti forse dall’uno e dall’altro schieramento secondo le regole dettate da Mico Libri («uno dei nostri, uno dei loro»). Ma lo ha fatto più e meglio in una serie di lunghi interrogatori di fronte al pm Lombardo, di fronte al quale ha ricostruito il contesto in cui il delitto Scopelliti è maturato.
VECCHIE E NUOVE COPERTURE Alcuni stralci di quelle conversazioni sono finite agli atti del procedimento Mammasantissima, da cui emerge che i fratelli De Stefano avevano ereditato dal defunto Paolo una «rete di protezione» che li portava a sostenere «che a Reggio erano degli “intoccabili”». “Coperture” che derivavano da «storie vecchissime che risalgono agli anni ’70 e con suo padre, in cui in mezzo c’era anche l’Avvocato Giorgio De Stefano». Erano stati loro – mette a verbale il collaboratore – che durante il «periodo dello sciopero di Reggio, che… dei Moti» degli anni ’70 dello scorso secolo, avevano siglato dei «patti», con «persone di un certo livello, che pur essendo esclusi dai poteri legislativi avevano le capacità economiche per poter entrare in determinate situazioni». «Una sorta di giuramento che, a patto che non fossero commessi crimini contro le istituzioni, si sarebbero aiutati tra di loro».
MUTUO SOCCORSO Ed esempi concreti di cosa abbia nel tempo significato questo aiuto li ha forniti il collaboratore Giuseppe Lombardo. Uno dei protagonisti della guerra di ‘ndrangheta, che nel ’97 spiegava «durante la guerra di mafia ricevetti dall’imprenditore Cozzupoli la somma di lire 50.000.000 che venne utilizzata per l’acquisto di armi, per come mi venne detto da Pasquale Condello al quale consegnai l’intero importo. La stessa sera mi portai presso il silos di Bastiano Nucera che mi consegnò anch’egli la somma di lire 50.000.000. Ricordo che questi sopraggiunse con jeeppone Mercedes blindato di colore blu. Lo stesso, peraltro, era in precedenza di colore bianco e perfettamente uguale a quello di Mico Libri, pure questo di colore bianco, e che per tale ragione il Nucera, nel timore di scambiato per il Libri, aveva fatto riverniciare in blu».
LA ROTTURA DEI PATTI Questo però non era che un esempio delle “pratiche di mutuo soccorso” all’epoca in voga tra le ‘ndrine e la grande borghesia reggina. Dai tribunali agli studi notarili, dai cantieri agli appalti – spiegano i collaboratori – almeno dagli anni Settanta la pacifica convivenza fra ‘ndrine e borghesia era retta da patti solidi. Gli stessi – aggiunge Fiume – «decaduti dopo la guerra, per certi aspetti, perché era morto il giudice Scopelliti» e gli stessi De Stefano «erano usciti – dice – scottati, bruciati da queste cose». Per i magistrati, quel delitto ha segnato la fine di un sistema e l’inizio di un nuovo corso, come la conclusione della seconda guerra di ‘ndrangheta, il sanguinoso conflitto che fra ’85 e ’91 è costato alla città più di ottocento morti ammazzati.
LA CUPOLA REGGINA Dal ’92-’93 in poi – spiega il pentito Lombardo – a Reggio è nata «una “cupola” che governa tutti gli interessi illeciti nella città e che è costituita da esponenti della mafia, della politica, della massoneria e dell’imprenditoria». Un organismo che il collaboratore conosceva in dettaglio. «Il referente politico – dichiarava in pubblica udienza nel lontano 1997 – è l’onorevole Amedeo Matacena il quale rappresenta il mondo politico all’interno della cupola mafiosa», mentre «per quanto riguarda il settore dell’imprenditoria, nella cupola è presente Bastiano Nucera, che so essere massone, unitamente a cognato di cui non ricordo il nome ed ora che mi viene fatto dalla S.V. posso confermare essere Guarnaccia. So che questa persona ha subito un attentato. A Nucera ed a Guarnaccia sono strettamente collegati due fratelli, uno dei quali imprenditore e l’altro avvocato. Quest’ultimo ha lo studio di fronte la piazza Sant’Agostino. Al momento non mi sovviene il cognome di queste persone che comunque ricordo essere state arrestate alcuni anni fa. Alla S.V. che mi fa il nome Cozzupoli rispondo che effettivamente è questo il nome che non ricordavo».
TOGHE AMICHE Ma la neonata cupola poteva contare anche su diverse toghe. «Il settore “giustizia” in commissione – si legge nei verbali di Lombardo – è rappresentato dall’avvocato Giuseppe Foti, grande amico di Pasquale Condello». Un rapporto che il collaboratore ha potuto constatare personalmente. «Subito dopo l’operazione “Santa Barbara”, quando ancora non ero stato arrestato – racconta ai magistrati – su incarico di Pasquale Condello, andai a prendere con la Fiat 127 bianca di Paolo Iannò l’avvocato Foti, che prelevai dal suo studio ed accompag
nai a Gallico in un casolare, da Pasquale Condello».
«È MASSONE, TI PUOI FIDARE» Un incontro voluto dal superboss per definire la strategia processuale. «Il Condello – racconta ancora Lombardo – mi rispose dicendomi che del Foti ci si poteva fidare ciecamente anche perchè era un massone, termine che, all’epoca non mi diceva assolutamente nulla». Un dato, quello sulla vicinanza di diverse toghe alla cupola, che anche il pentito Lauro ha confermato. Anzi, il collaboratore va oltre, affermando che diversi magistrati assunsero il ruolo di «garanti della pax mafiosa» e che, dunque, andarono quantomeno a rinfoltire la schiera di coloro che Paolo De Stefano, in epoca databile intorno al 1977, qualificava come «intoccabili» e che Domenico Libri definiva «nobili».
L’INTERVENTO DEI SICILIANI Ma un ruolo nella pacificazione prima e nella definizione della cupola e delle sue regole poi, lo hanno avuto anche i siciliani. A raccontarlo è il collaboratore Filippo Barreca. «L’intervento dei siciliani, oltre gli interessi iniziali di cui ho parlato, fu ulteriormente motivato, strada facendo, dalla sopravvenuta loro esigenza di eliminare il giudice Scopelliti per motivi connessi al Maxi processo di Palermo. Tutte le attività criminose di qual si voglia natura, devono passare al vaglio della cupola che ne autorizza l’esecuzione o la vieta». E proprio l’omicidio del giudice Scopelliti – spiega Barreca – «è stato certamente deciso o, quantomeno avallato dalla cupola di concerto con la mafia siciliana». E il suo omicidio non è stato l’unico.
L’ALLARME DI LAURO Per Lauro, il malaffare si «era istituzionalizzato in Reggio Calabria e provincia tanto da inquinare, io dico profondamente, le istituzioni a ogni livello, coinvolgendo così tutta una generazione e pregiudicando in forma notevole ogni sforzo attuale che la magistratura reggina, palermitana e napoletana sta compiendo dagli anni 90 fino ad oggi. Ecco che spuntano fuori omicidi eccellenti come onorevole Lodovico Ligato (1989) – Giudice Scopelliti 91, on. Lima 92, giudice Falcone e giudice Borsellino. Questa è la realtà. Chi dice che si tratta di un “qui pro quo”, gioca alla restaurazione e fa il gioco di chi diceva che bisogna cambiare qualcosa affinché tutto resti eguale. Su questo tema oggi si gioca il futuro della democrazia italiana».
LA PISTA DI FALCONE Parole pesanti, che però oggi trovano conferma e riscontro in quelle di altri collaboratori e dichiaranti – non solo calabresi – che la Dda di Reggio Calabria ha messo in fila e fanno da trama all’omicidio del giudice. Stando a quanto fin qui emerso, la morte di Scopelliti si inscrive infatti nel lento processo di cristallizzazione della cupola delle mafie italiane. Una pista che anche Giovanni Falcone aveva intuito e prima di essere ucciso aveva iniziato a battere. (continua)
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x