REGGIO CALABRIA «L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la suprema corte di Cassazione era stata investita dalla trattazione del maxiprocesso alla mafia palermitana e ciò non può essere senza significato». Così scriveva Giovanni Falcone in un brillante articolo pubblicato su La Stampa, a pochi giorni dall’omicidio Scopelliti. All’epoca, il giudice non era più il capo della procura di Palermo. Lo avevano trasferito – ufficialmente per ragioni di sicurezza – alla direzione degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Ma nessuno era riuscito a spegnere il suo fiuto investigativo. E sulla morte di Scopelliti, ha scelto di usare i giornali per mettere ben in chiaro i termini della partita.
NON DIMENTICATE IL MAXIPROCESSO «Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema corte – scriveva in quell’articolo – non ne avrebbe comunque potuto prescindere nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento in quella sede». Per questo, Giovanni Falcone non aveva dubbi: i mandanti del delitto andavano cercati in Sicilia. Un’intuizione confermata nei mesi e negli anni a venire da diversi pentiti. Il primo a parlare è Gaspare Mutolo, sicario e regista dei traffici di droga con l’Asia per i palermitani, autista personale di Riina e braccio destro di Rosario Riccobono, capomandamento di Partanna-Mondello, dal ’91 primo pentito dei Corleonesi.
LE RIVELAZIONI DI MUTOLO «L’omicidio del dottor Antonio Scopelliti sarebbe stato commesso su mandato di Cosa Nostra e collegato con la partecipazione del magistrato, in qualità di pubblico ministero, al giudizio di Cassazione concernente il maxi-processo», spiega Mutolo ai magistrati nel settembre ’92. «Tutto l’andamento del maxiprocesso, nelle sue varie fasi, è stato attentamente seguito da Cosa Nostra e sono stati posti in essere tutti i tentativi per condizionarne l’esito in senso favorevole all’organizzazione. In tale articolata strategia – aggiunge – si è inserito l’omicidio del dr. Scopelliti». In sostanza – dice il pentito – era stato l’ultimo dei vari tentativi, già posti in essere da “Cosa nostra” per far scadere i termini di custodia preventiva».
DETTAGLI Mutolo non parla per sentito dire. Di quel delitto conosce molti dettagli. «Ebbi poi specifica conferma, verso il novembre 1991, periodo in cui mi trovavo nel carcere di Spoleto, insieme a Gambino Giacomo Giuseppe “u tignusu”, capo del mio mandamento. (…)Nel contesto del discorso con Gambino – racconta ai magistrati – io chiesi da chi fosse stato eseguito materialmente il delitto, posto che era avvenuto in Calabria e mi sembrava impossibile, dati i rapporti tra “Cosa nostra” e la ‘ndrangheta, che avessero operato i killer di “Cosa nostra” (..) Gambino mi spiegò che l’omicidio era stato eseguito da killer calabresi, ma su richiesta di “Cosa nostra” e per fare un favore a quest’ultima».
I COLLABORATORI CONFERMANO Circostanze poi confermate anche da altri pentiti siciliani come Leonardo Messina, Francesco Marino Mannoia, Tommaso Buscetta, Antonino Calderone e Giuseppe Marchese, il rampollo dell’omonima “famiglia” mafiosa di Corso dei Mille. Ma anche dal pugliese Salvatore Annacondia, uomo del “Consorzio” – accrocco milanese che negli anni Ottanta riunisce e coordina tutte le mafie a Milano – poi fra i più importanti pentiti gestiti dalla Dda del maxiprocesso Olimpia. «Se vi fu un accordo con forze esterne alla ‘ndrangheta (mi riferisco in particolare alla mafia siciliana) – mette a verbale il collaboratore – io non ne sono a conoscenza in termini di dettaglio, pur essendo perfettamente a conoscenza del fatto che la mafia siciliana intervenne per cercare di pacificare la guerra di mafia in Calabria».
IL FILO ROSSO L’omicidio Scopelliti – spiega Annacondia – va inquadrato nell’ambito delle trattative di pace a Reggio. E non a caso «ribadisco che la circostanza che alle ultime riunioni Pasquale Condello non abbia portato con se né i Saraceno né Giovanni Fontana, né lo stesso Antonino Imerti, depone comunque per l’ipotizzabilità di decisioni gravi, che potevano anche riguardare l’eliminazione del giudice Scopelliti da assumere proprio in quelle riunioni e da portare a conoscenza del minor numero di persone possibili: nei patti di pacificazione era compreso qualche accordo particolarissimo che soli pochissimi avrebbero dovuto conoscere».
«PACE CHE PACE NON È» Giacomo Ubaldo Lauro – caratura criminale internazionale e uomo di peso del cosca Imerti – va addirittura oltre. Spiega che tanto al delitto come alla pace hanno lavorato molti. «Il delitto Scopelliti ci ha indotto a venire a patti con la cosca De Stefano – Tegano-Libri… perché ha determinato un intervento di tutti, e… intendo non solo la ‘ndrangheta calabrese ma anche la mafia siciliana ed il crimine organizzato canadese legato ai calabresi», dice da pentito ai magistrati. Nel ’92 invece, scrive direttamente all’allora colonnello Angiolo Pellegrini, all’epoca responsabile della Direzione investigativa antimafia di Reggio, chiedendo di essere tradotto nel carcere di Reggio Calabria, per «capire e sapere alcune cose che mancano al mio mosaico di conoscenza. Prima fra tutti perché dopo la morte del giudice Scopelliti si è dovuta fare una pace che pace non è».
LE ORECCHIE LUNGHE DI COSA NOSTRA Parole che lasciano intendere una trama complessa dietro l’omicidio del magistrato. Al pari di quelle di Gaspare Mutolo, che non solo, per primo, ha confermato il collegamento del delitto con il maxiprocesso, ma ha anche svelato che «per noi il processo era politico: da sempre ci siamo accorti, fin dall’istruttoria, che il processo era pilotato politicamente». E i clan lo sapevano da fonti vicine alle aule di giustizia, se è vero che sono venuti a conoscenza dell’assegnazione del fascicolo a Scopelliti ben prima che la notizia divenisse pubblica. Quando il magistrato è stato ucciso infatti, solo gli addetti ai lavori e pochi altri sapevano che sarebbe stato lui il pg del maxiprocesso.
«FACCIO IO» Lo rivela, poco dopo l’omicidio di Scopelliti, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Vittorio Sgroi, spiegando che «nell’approssimarsi della data della celebrazione in Cassazione del cosiddetto maxiprocesso, l’avvocato generale Dr. Lombardi, che all’epoca – come sovrintendente del servizio penale – predisponeva il calendario delle udienze dei singoli sostituti, mi riferì che il collega Scopelliti si era proposto per la sostituzione quale sostituto d’udienza». Era il giugno del ’91. «In quel momento – specifica Sgroi – non esisteva ancora un calendario ufficiale delle udienze e non era quindi intervenuta una designazione formale».
INTERESSE EXTRAPROCESSUALE Una circostanza che l’allora pm Bruno Giordano, titolare del primo fascicolo istruito a Reggio sulla morte del giudice Scopelliti, reputa importante sottolineare. «Con siffatto comportamento, il Dr. Scopelliti rivelava un interesse di natura quasi extraprocessuale e una particolare motivazione verso la trattazione di quel processo, a dispetto della vistosa traccia di sangue che esso aveva seminato lungo il suo iter. Pertanto, delle due l’una: o il Dr Scopelliti era stato perché interferisse in senso favorevole agli imputati, o viceversa, le ragioni che lo spingevano erano di natura esattamente opposta». La sua morte – aggiunge Giordano – ha impedito di sapere che atteggiamento avrebbe tenuto a processo, tuttavia – evidenzia – «taluni segnali deponevano in modo non equivoco per una propensione non benevola del magistrato nei confronti del fenomeno mafioso».
INDAGATE ANCORA Una questione irrisolta, sottolineata dal gip che all’epoca ha trattato quel procedimento, Alberto Cisterna. Nel rinviare a giud
izio Totò Riina e altri 13 imputati per l’omicidio Scopelliti, quello che di lì a pochi anni diventerà il numero 2 dell’Antimafia in Italia, indica altre piste da battere. «Spetterà al dibattimento chiarire un coacervo indiziario assolutamente equivoco sul punto – scrive infatti – verificare l’opportunità di approfondire taluni rapporti e conoscenze dell’alto magistrato. Una circostanza, ad esempio, meritevole di una più attenta disamina è quella delle pretese amicizie massoniche che il dr. Scopelliti avrebbe vantato e di cui riferisce Scopelliti Antonietta nel suo interrogatorio del 2.4.1992».
LA MATASSA SICILIANA Ma per Cisterna, sarebbe stato necessario esplorare anche un altro filone di indagine, quello «dei rapporti con ambienti politici romani vicini alla corrente dell’on. Andreotti che sarà duramente colpita in Sicilia pochi mesi dopo dall’uccisione dell’on. Lima Salvatore. La necessità di attuare un attento controllo sul punto si rende, d’altronde, evidente laddove si abbia riguardo alla comune causale che salda i due gravi episodi delittuosi, destinati entrambi (e, sia chiaro, secondo prospettive affatto difformi) a realizzare la strategia di Cosa nostra sulla celebrazione in Cassazione del maxi processo». Cisterna aveva intuito, ma le sue indicazioni sono rimaste lettera morta.
CONTAMINAZIONI Tanto la massoneria, come la Dc andreottiana proprio in quegli anni sono agitati, e in una certa misura spaccati e corrosi, dal progetto eversivo della Cosa unita. Proprio agli inizi degli anni Novanta, entrerà nella fase operativa il progetto di spezzare l’Italia per dare alla mafia una nazione, coltivato in segreto dall’élite delle mafie tutte e dalla massoneria, e messo in atto con l’appoggio di servizi, destra eversiva, e pezzi di Stato. Un piano – criminale – elaborato e complesso, da sviluppare in varie fasi e su diversi piani, partorito dalla Cosa Unita delle mafie. Un piano eversivo cui in tanti – nei decenni – sono stati sacrificati. Fra loro, forse, c’è anche il giudice Scopelliti. (fine)
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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