VIBO VALENTIA Parte del futuro assetto della giunta comunale di Tropea era stata già decisa a tavolino, un mese prima delle elezioni, durante una riunione in un albergo della zona. Un incontro avvenuto nell’aprile del 2014 a cui avrebbero partecipato Giuseppe Rodolico – che il 25 maggio di quell’anno sarebbe stato eletto sindaco –, il titolare della struttura, parente di un soggetto «riconducibile alla locale cosca», e altri personaggi ritenuti collegati ad ambienti criminali. Alla riunione sarebbe stato presente anche un altro candidato a sindaco a cui, però, fu garantito che «se avesse ritirato la candidatura e avesse sostenuto la lista del primo cittadino, avrebbe ottenuto in cambio del proprio sostegno un incarico assessorile». Ed è «significativo che tale circostanza si sia realizzata». Sono alcuni dei passaggi messi nero su bianco dal prefetto di Vibo, Carmelo Casabona, nella relazione allegata al decreto di scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune di Tropea – notificato ieri al protocollo dell’ente dopo la decisione assunta lo scorso 10 agosto dal Consiglio dei ministri – che parla di «forti legami di parentela e di frequentazione di alcuni amministratori e dipendenti comunali, molti dei quali con gravi precedenti di natura penale, con esponenti di ambienti controindicati».
GLI ACCORDI PRE-ELETTORALI Dal dossier messo insieme dopo sei mesi di indagini condotte dalla Commissione d’accesso agli atti (composta dal viceprefetto Lucia Iannuzzi, dal capitano dei Carabinieri Francesco Manzone e dal capitano della Guardia di finanza Giovanni Torino), emerge dunque come «alcuni accordi pre-elettorali» ritenuti «decisivi» per l’elezione di Rodolico – che ha già annunciato ricorso contro lo scioglimento – siano «maturati alla presenza di soggetti riconducibili alla locale criminalità organizzata», ovvero alla cosca La Rosa di Tropea e ai Mancuso di Limbadi e Nicotera. Lo stesso prefetto rileva inoltre «la sussistenza di rapporti di parentela e/o frequentazione di alcuni amministratori e dipendenti comunali con persone affiliate o collegate alle consorterie criminali», tanto da far concludere al ministro Alfano, nella sua relazione al capo dello Stato, che «tali rapporti, consolidatisi nel tempo, hanno prodotto uno sviamento dell’attività amministrativa dell’ente in funzione degli illeciti interessi e delle regole della criminalità organizzata».
L’INTIMIDAZIONE AL SINDACO Diverse delle circostanze richiamate nelle carte che hanno portato allo scioglimento fanno riferimento a quanto emerso dalle inchieste antimafia “Black Money” e “Peter Pan”, ma la decisione di indagare sull’attività amministrativa dell’ente è stata presa all’indomani dell’intimidazione subita dall’allora sindaco Rodolico, la cui auto fu data alle fiamme nella notte tra il 18 e il 19 gennaio 2015 in pieno centro a Tropea. Un atto «dalle modalità tipicamente mafiose» avvenuto in «coincidenza temporale» con altri due episodi: la revoca di un assessore «il cui ruolo all’interno della giunta era stato oggetto di accordi pre-elettorali alla presenza di soggetti presumibilmente vicini al contesto della criminalità organizzata», e l’estromissione di una ditta a favore di un’altra direttamente indicata dal sindaco.
IL GENERO DEL BOSS SULLA RAI Proprio a proposito della revoca dell’assessore, nel dossier viene richiamato un episodio che era già divenuto di dominio pubblico. La vicenda riguarda il ruolo del genero del boss di Tropea Antonio La Rosa nell’organizzazione dell’evento del “tuffo di capodanno” del primo gennaio 2015, una manifestazione «pubblicizzata mediaticamente a livello nazionale (fu trasmessa dalla Rai, ndr), grazie ad una esplicita richiesta dell’assessorato al Turismo con il benestare del sindaco e organizzata dal pregiudicato omissis, notoriamente esponente di rilievo della cosca La Rosa». A quell’episodio seguì il ritiro delle deleghe all’assessore Antonio Bretti da parte di Rodolico, ma solo come «conseguenza dell’interessamento delle forze di polizia alla vicenda e non dalla presa di coscienza della gravità dell’evento in sé». Il genero del boss, in regime di sorveglianza speciale, durante la manifestazione, cui parteciparono anche l’allora vicesindaco e il presidente del consiglio comunale, fu anche intervistato dalla tv di Stato e, in merito, il titolare del Viminale osserva che «la presenza di un esponente della criminalità organizzata ad un evento pubblico, diffuso dalla Rai, rappresenta un chiaro messaggio mediatico per dimostrare il dominio della locale cosca agli occhi del pubblico».
LAVORI ALLE DITTE DEI CLAN La relazione parla poi delle «ingerenze del sindaco nelle competenze dell’Area tecnica» riguardo all’assegnazione di alcuni lavori a seguito di un nubifragio avvenuto nel giugno 2014. In questo caso, l’adozione della procedura di somma urgenza (dunque senza bando di gara) avrebbe consentito di destinare fondi pubblici a una ditta di Vibo Marina il cui titolare è ritenuto un prestanome del clan Tripodi, a un’altra il cui titolare è nipote del boss di una ‘ndrina radicata in Lombardia e collegata ai Mancuso, e a una terza il cui socio, con precedenti penali, risulta avere frequentazioni con esponenti della cosca locale.
IL DEPURATORE «Gravi violazioni di natura penale ad opera di alcuni soggetti dell’amministrazione comunale» sarebbero emersi, poi, dalla realizzazione di un’aiuola dinanzi alla Marina dell’Isola, mentre un ulteriore paragrafo della relazione del prefetto è dedicato alla gestione del depuratore comunale. La gara per la gestione dell’impianto avrebbe dovuto essere effettuata dalla Stazione unica appaltante della provincia di Vibo, ma la procedura non è stata svolta in tempo utile perché il Comune avrebbe trasmesso in ritardo la documentazione. Ciò avrebbe consentito la proroga di quasi un anno dell’affidamento del servizio a un’azienda di cui sarebbe socio un soggetto che «è stato coinvolto in un’operazione di polizia a seguito della quale il predetto e altre 43 persone sono stati deferiti alla Procura della Repubblica imputati, tra gli altri, del reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti tossici».
IL PORTO Gli interessi dei clan si concentrano, ovviamente, anche sulle attività che si svolgono nell’area turistico-commerciale del porto di Tropea. «La relazione della commissione di indagine – si legge nella relazione di Alfano – pone in rilievo che l’amministrazione comunale (…) consentiva l’occupazione degli spazi ad uso commerciale previo pagamento del solo canone di occupazione del suolo pubblico, senza il preventivo rilascio del titolo autorizzativo e l’acquisizione delle certificazioni antimafia». In alcuni casi la proroga delle concessioni sarebbe avvenuta senza che i concessionari avessero pagati i canoni per l’occupazione del suolo pubblico, il che non è un dettaglio se si considera che alcuni dei titolari delle aziende che occupano queste aree «sono riconducibili al locale contesto criminale».
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
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