REGGIO CALABRIA Per lei, quel ragazzo era il sogno di trovare l’amore che in famiglia non trovava più. Ma sono bastati pochi mesi perché il principe azzurro si trasformasse in un orco, capace di offrirla “in regalo” a tutti i suoi amici, che per quasi due anni ne hanno abusato in ogni modo.
IL BRANCO È questo l’inferno vissuto da una ragazzina di Melito Porto Salvo, violentata, ricattata e costretta al silenzio da un branco capeggiato dal Giovanni Iamonte, il figlio del boss Remingo. A lui, come ad altre sette persone i carabinieri del Comando provinciale e della compagnia di Melito Porto Salvo, hanno stretto le manette ai polsi questa mattina per ordine del gip, che ha disposto il carcere per Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni), Antonio Verduci (22 anni). Insieme a loro è finito dietro le sbarre per ordine del gip presso il Tribunale dei Minori anche il più giovane del branco, G. G., oggi diciottenne, ma minorenne all’epoca dei fatti.
(Benedetto, Iamonte, Nucera, Principato, Schimizzi, Tripodi e Verduci)
DIARIO DI ORDINARIA SCHIAVITÙ Sono loro – concordano gli inquirenti – i responsabili dell’inferno in cui la tredicenne è precipitata alla fine del 2013, quando il suo sogno d’amore si è trasformato in un incubo di violenze seriali, minacce, lesioni e stupri. Per quasi due anni il copione è stato sempre lo stesso. Almeno due volte la settimana, alcuni di loro si presentavano davanti a scuola, obbligavano la ragazzina a salire in macchina e la portavano a casa di Iamonte, dove era costretta ad avere rapporti con tutti quelli del gruppo che ne avessero voglia, anche contemporaneamente. A volte le violenze avvenivano addirittura prima, durante il tragitto in macchina. E tutte venivano fotografate. Quelle immagini sono diventate un’arma micidiale nelle mani del branco.
RICATTO Quando la tredicenne tentava di reagire, quando neanche la violenza con cui le strappavano i vestiti di dosso riusciva a placarla, iniziavano le minacce. Se quelle foto fossero state rese pubbliche, lei sarebbe stata una “disonorata”, una reietta, per il paese come per la sua famiglia, che neanche allontanandola sarebbe riuscita a cancellare l’onta. Disperata, terrorizzata, la ragazzina chinava la testa e subiva. Del resto, chi parlava lo faceva in nome e per conto di Giovanni Iamonte, il figlio del boss.
IL PESO DEI IAMONTE «Quando lui la guardava – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, che si è occupato in prima persona dell’indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». A Melito, Iamonte vuol dire un regno che da quarant’anni si fonda su sangue e sopraffazione, denaro e violenza. E lei, che la famiglia la conosceva da vicino, fin da quando la mamma lavorava a servizio del boss Remingo, non riusciva a ignorarlo. Per questo terrorizzata, soggiogata da un branco numeroso, tutto di ragazzi molto più grandi di lei, sopportava. O almeno tentava di farlo.
NEL REGNO DELL’OMERTÀ «Questi abusi – dice serio il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho – hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l’omertà regna sovrana e la sopraffazione è l’unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la ragazzina ha provato a ribellarsi, per conquistare una vita normale, uguale a quella di tutte le sue coetanee.
(Federico Cafiero De Raho)
PROPRIETÀ Nonostante le violenze subite, ha trovato la forza di iniziare una nuova storia d’amore con un altro ragazzo, ma il branco non glielo ha permesso. Quando i sette componenti del gruppo sono venuti a saperlo, lo hanno picchiato selvaggiamente, costringendolo a non vedere più la tredicenne e imponendogli il silenzio. E lui si è piegato. Non ha denunciato e ha voltato le spalle alla ragazzina, abbandonandola ai propri aguzzini. Un comportamento che per l’ormai quattordicenne si è trasformato in nuove violenze.
MESSAGGI Un incubo fatto emergere in un tema a scuola o confessato – solo a grandi linee – a poche persone e intuito forse troppo tardi dai genitori, che hanno aspettato fino all’estate 2015 per chiedere aiuto. Prima, il padre della ragazza, lontano parente di Iamonte, ha preferito affrontare direttamente il branco, per chiedere loro di lasciare in pace la figlia. Ma con il passare dei mesi, anche lui probabilmente si è reso conto che quella tregua non era abbastanza.
LA DENUNCIA DEI GENITORI Nell’estate del 2015 si sono presentati al comando accennando in maniera vaga alla vicenda, ma solo dopo diversi mesi hanno chiesto ad un avvocato di fiducia di recarsi in Procura. Da allora, i carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e della compagnia di Melito, si sono messi all’opera e la macchina delle indagini è partita. Nonostante il muro di omertà e l’intimidazione seriale di ogni possibile testimone da parte del branco, gli investigatori sono riusciti a identificare tutti gli aguzzini della tredicenne ed a trovare riscontri alla vicenda che la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio.
RIBELLIONE NECESSARIA Un successo investigativo che non riesce a cancellare l’amaro in bocca per l’ennesima storia di violenza che si consuma, senza che nessuno si azzardi a denunciare. «Tutto questo – tuona Cafiero de Raho – è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente. Quando si sveglieranno i cittadini? Quando capiranno che il nemico non è lo Stato, ma la ‘ndrangheta?».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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