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La discesa negli inferi di una ragazzina

MELITO PORTO SALVO Da una parte i padroni, quelli che possono tutto, quelli che si prendono tutto. Dall’altra chi si sente costretto – dalla paura, dalle condizioni economiche, dal timore dell’ostr…

Pubblicato il: 04/09/2016 – 12:14
La discesa negli inferi di una ragazzina

MELITO PORTO SALVO Da una parte i padroni, quelli che possono tutto, quelli che si prendono tutto. Dall’altra chi si sente costretto – dalla paura, dalle condizioni economiche, dal timore dell’ostracismo sociale – a chinare la testa per sopravvivere, ad accettare le peggiori nefandezze, purché non si sappia, purché tutto succeda lontano “dall’occhio della gente”. In più c’è la ‘ndrangheta, cemento tossico impastato di omertà, che in alcuni territori diventa sistema e istituzione.
È questo l’orizzonte ideologico e culturale in cui è maturato l’inferno vissuto dalla ragazzina di Melito Porto Salvo precipitata, appena tredicenne, in un calvario di abusi sessuali e violenze durato quasi due anni.
Una «discesa agli inferi» raccontata in maniera dettagliata dalla ragazzina agli psicologi del Tribunale, in modo tanto particolareggiato quanto agghiacciante. E non solo per la violenza – tanto psicologica, come fisica – sottesa a ognuno degli episodi di abuso descritti, quanto per il profondo senso di alienazione che emerge – in modo evidente – dai racconti dell’ormai quindicenne. La ragazzina parla di sé quasi come di una cosa. Un involucro neanche poi così importante. E sembra quasi prendere le distanze da quel corpo cui ha iniziato a rinunciare quando l’ha offerto come “pegno d’amore” a Davide Schimizzi, a quell’uomo così più grande di lei e da cui voleva essere amata. In breve però, il suo stesso corpo è diventato solo oggetto, tanto da rinunciare a qualsiasi facoltà su di esso e accettare che venisse prestato a uomini che conosceva o addirittura estranei. La discesa agli inferi è stata rapida.
Totalmente soggiogata dal fidanzato dell’epoca, pur di compiacerlo, accetta di stare con lui e con un suo amico, Antonio Verduci. «Lui mi si è presentato che io dovevo fare determinate cose con lui e i suoi amici e io magari, all’inizio, non ho detto subito sì (…) poi avendo pure 13 anni, comunque mi piaceva, l’ho fatto però l’ho fatto una sola volta e poi lui ha detto: va bene, basta». Il perchè lo spiega lei stessa alla psicologa: «Io avevo detto di sì per farmi perdonare. Il primo pensiero era questo, magari poi non succede niente, magari poi torniamo insieme». Completamente soggiogata dall’uomo, troppo giovane, troppo bimba forse, è arrivata a pensare che fosse amore l’esser condivisa, che fosse prova di devozione subappaltare il proprio corpo alle peggiori voglie altrui.
E non è successo una volta sola. Le richieste sono diventate continue. «Dopo un po’ si è ripresentato con questa cosa, alla fine sono stata tre volte o quattro volte che sono successe queste varie cose con ragazzi diversi però sempre amici suoi». E lei, impotente, forse ignara dell’abisso in cui si stava inoltrando, si limitava a chiudere gli occhi e sperare che tutto finisse in fretta. Nel raccontare i suoi incontri con gli altri specifica spesso: «Ha fatto… ha fatto tutto lui». In due anni, è successo con Antonio Verduci, Lorenzo Tripodi, Michele Nucera, Davide Benedetto, Pasquale Principato, un minore, altri ancora.
Quando si rifiutava, bastava ricordale quanto fosse facile inviare in giro le foto intime che lui l’aveva indotta a inviargli. A un certo punto però non è stato più necessario. La violenza – psicologica, in primo luogo – era tale, che l’abuso era diventato “normale”. Raccontando alla psicologa uno degli episodi di violenza subiti, la ragazzina dice infatti che durante il tragitto verso casa dell’amico che avrebbe ospitato lei e Schimizzi quel pomeriggio, sapeva già che sarebbe stata costretta a offrirsi anche all’altro. «Non mi è stato detto, lo immaginavo io, perché era naturale, come le altre volte che erano successe prima, era naturale, cioè non pensavo “andiamo a farci una chiacchierata”, era logico».
Tanto era stata manipolata, da considerarlo scontato. Tanto era stata violata e violentata, da non considerare opzioni diverse da essere “cosa”, “oggetto”, il cui valore stava nell’esser capace di soddisfare gli appetiti altrui. «Speravo solo finisse al più presto, cioè io lo faccio e mi caccio il pensiero, era questo quello che pensavo», si legge nei verbali. Anche quando la ragione o l’istinto di sopravvivenza l’hanno indotta ad allontanarsi da Schimizzi, sono bastate un paio di moine e un un nuovo inganno per riportarla da lui. Quando per regalo di San Valentino, il “fidanzato” l’ha “regalata” a Giovanni Iamonte, dalle sue parole traspare delusione per un uomo “di famiglia” – perché tale era per lei il figlio del boss – che vuole usarla come tutti gli altri. Ma niente rabbia. Sembra già essere “addestrata” a non aver alcuna considerazione di sé. Al massimo paura, per quelle “conseguenze” per lei e la sua famiglia, cui il figlio del boss alludeva e le incutevano terrore. Lui – dice – «è uno sempre arrabbiato». Lei tremava e subiva. Il gip parla di una condizione di «recalcitrante rassegnazione». Non era altro che una ragazzina, resa schiava dentro e fuori dal letto, tanto brutalizzata da considerare tutto lecito e privo di importanza. «Tutti questi altri che ci sono stati dopo senza alcuna importanza che però non facevano parte dei ricatti sono stati per questo motivo, non mi interessava niente».
Come una schiava era trattata e forse schiava si sentiva, se è vero che è con la massima naturalezza alla psicologa con cui parla, che spiega: «Sì, ricordo che c’erano le coperte rosa, perché poi mel’hanno fatto riaggiustare il letto… e un copriletto beige. No loro no… non l’avrebbero mai riaggiustato». Loro, gli uomini, i grandi, i padroni.
Solo il suo inconscio o la sua anima le gridavano che no, tutto quello non era giusto, tutto quello non era normale. E lei si tagliava braccia e gambe con i coltelli, aveva crisi isteriche o di pianto a scuola e a casa. E pensava «dopo questi ricatti, dopo queste cose che erano successe, io non avevo più stima di me stessa completamente, perché io, in questi momenti, avevo pure momenti.. queste crisi, queste cose.. dicevo sempre sono una merda, cose così». Nei suoi verbali non si rintraccia una parola di rabbia verso gli uomini che l’hanno brutalizzata, solo lucida rassegnazione all’abisso. La stessa che traspare dalle parole della madre, che per mesi evita che la figlia denunci l’accaduto.
Anche lei, ex dipendente e forse ex amante del boss Remingo Iamonte, quando viene a sapere che la figlia è divenuta preda degli appetiti del rampollo del capobastone, sembra preoccuparsi soprattutto che la cosa non si sappia in giro. Anche lei sembra avere difficoltà a identificare il vero nemico. «Loro – dice, intercettata, al telefono – si vogliono prendere i meriti di andare con le sirene, come al solito per prendersi i meriti sulla pelle degli altri? Quanto meno devono avvisare, o no? Sulla pelle nostra, perché i problemi ce li abbiamo noi, non loro… tanto non cambierà niente, perché loro hanno i soldi e non paga nessuno, stai tranquillo, sai chi pagherà? Quelli che hanno meno soldi. E quelli che ce li hanno non pagheranno». Anche lei sembra rassegnata a un destino da schiava.
A salvare l’ormai quindicenne, tentando di emanciparla da un destino di sottomissione e abiezione, è stato il padre, che per primo è andato dai carabinieri a raccontare in dettaglio quanto la figlia gli avesse confidato, che è andato di persona dagli orchi che avevano abusato della sua bambina chiedendo una tregua. A salvare una comunità che ha fatto finta di vedere e non sentire, in cui troppe donne sono così abituate a essere schiave, in maniera più o meno degradante, da aver più timore delle chiacchiere che voglia di giustizia, potrà essere solo la comunità. Stuprata insieme alla ragazzina, ogni volta che la tredicenne è stata ridotta a sentirsi cosa e non persona.

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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