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Referendum, tre buoni motivi per votare "Sì"

Il Paese è quotidianamente affollato da dibattiti e confronti sul tema del referendum all’esito dei quali i pochi cittadini che vi partecipano escono frastornati e con le idee meno chiare di prima….

Pubblicato il: 05/09/2016 – 7:52
Referendum, tre buoni motivi per votare "Sì"

Il Paese è quotidianamente affollato da dibattiti e confronti sul tema del referendum all’esito dei quali i pochi cittadini che vi partecipano escono frastornati e con le idee meno chiare di prima.
Ciò accade perché le coalizioni del SI e del NO – anziché spiegare nel merito le modifiche proposte, la loro ricaduta sul vivere civile e su come fare per assicurare una migliore esigibilità dei diritti fondamentali – si affannano a contraddire l’una le ragioni dell’altra.
Insomma, tutti trattano la contesa così come se fosse uno spareggio olimpico, ove a prevalere sono però i “colpi bassi” rispetto alle ragioni tecniche utili a fare comprendere il vero significato del consenso e del dissenso da rappresentare nel prossimo referendum.

Le tattiche
Nel Pd domina lo scontro al suo interno. Ivi, la competizione prevale sia tra le diverse correnti che lo compongono che nella maggioranza che lo governa, formata da più anime in celata concorrenza. In premio agli oppositori interni un indebolimento del segretario-premier, una vittoria politica, insomma. Ad appannaggio degli altri una maggiore considerazione dei capi partito. Null’altro. Da qui, uno scadente esercizio del suo ruolo politico.
Nel centrodestra, allargato ai «dissidenti» e ai rottamati nel centrosinistra, si radicalizza il contendere. Il tema referendario non è la revisione della Costituzione, della quale a pochi frega qualcosa, bensì il futuro di Matteo Renzi.
Insomma, a nessuno interessa la generazione della consapevolezza, nel senso di rendere edotti i cittadini delle conseguenze reali della manifestazione del loro consenso o dissenso sulla revisione costituzionale sottoposta al loro scrutinio.
Nella disputa ha, infatti, assunto il ruolo del protagonista la combinata lettura della riscrittura della Costituzione con la vigente legge elettorale (l’Italicum). Un accostamento interpretativo dal quale emerge, naturalmente, l’assunto che chi prende più voti dell’altro, antagonista finale al previsto ballottaggio, governa indisturbato il Paese per cinque anni. Con questo, il vincitore dello «spareggio» avrà in mano il suo e l’altrui futuro politico. Ciò in considerazione della facoltà in capo al leader della lista prevalente di fare ciò che gli aggrada con il rinnovato parlamentarismo, introdotto nel testo di revisione costituzionale.

I contenuti e la domanda referendaria
Il ragionamento è, fortunatamente, più complesso e più di alto pregio contenutistico.
Vi è, di conseguenza, l’esigenza di un approfondimento del tema in contesa, al di là di alcune naturali considerazioni, solo che si voglia arrivare ad un voto più consapevole della collettività nazionale.
Certo è che la legge elettorale va, preventivamente, cambiata nell’interesse generale della Nazione. Così come è da considerasi pasticciata la modifica del Senato in una impropria Camera Alta, piena zeppa di contraddizioni, tra le quali quella di potere garantire ai suoi componenti improprie immunità.
Non solo. Potrebbe essere altresì rilevata, in senso negativo, una sorta di pavidità del legislatore costituzionale nel non avere previsto l’eliminazione delle Regioni a statuto speciale, atteso il venir meno delle originarie motivazioni istitutive. Un atto dovuto all’unità giuridica ed economica della Repubblica, «minacciata» dalla loro perduranza, confermata peraltro in un momento storico in cui sono in tantissimi (ed io tra questi!) a ritenere finanche quelle ordinarie improduttive e dispendiose, tanto da volerle espungere dall’ordinamento. Ciò allo scopo di rendere più corto e incisivo il funzionamento dell’impianto legislativo e quello di governo del territorio, fondato su uno Stato che fissi le regole e sui Comuni chiamati a svolgere le funzioni amministrative e a condividere la programmazione in enti locali sovracomunali leggeri, cosiddetti di area vasta, ancora da codificare.
Il tutto a fronte di un positivo cambiamento del modo di divenire sistema autonomistico locale ma soprattutto della certezza del diritto, messo irresponsabilmente in crisi da quindici anni da una legislazione concorrente che ha lasciato spesso il nostro vivere civile senza regole.
Pertanto, le ragioni del SI risultano più convincenti e, quindi, prevalenti su quelle del NO.
Il problema è che sono in pochi a preoccuparsi di ben rappresentarle. Su un tema così importante per la Nazione necessiterebbe, invero, che i singoli cittadini assumessero la matura e cosciente consapevolezza, sulla base della quale decidere convintamente. Una metodologia di approccio al voto informato – al quale la più attuale collettività difficilmente rinuncia rispetto a come invece soleva fare nel passato – è irrinunciabile.
In un tale percorso di presa di coscienza collettiva, generativa di una astensione che non ha eguali nel tempo, si è resa complice anche una politica apparentemente innovativa (ma certamente aggressiva) propinata dalle neoformazioni politiche in crescita, che fanno solito ricorso ad una protesta sistematizzata, produttiva in termini di consenso collettivo, tanto da proporsi ad offerta politica alternativa e maggioritaria nel Paese.
Tutto questo rende, allo stato, la collettività nazionale ignara del test referendario perché ricondotto dall’informazione e dai partiti ad una competizione bugiarda.
Il quesito pragmatico non è quello di esprimere la volontà di vedere il Premier esultante o soccombente nel prossimo autunno/inverno.
La domanda referendaria è, nella sostanza, più semplice e di facile intendimento.
I potenziali votanti dovranno ben comprendere, esclusivamente, come vivranno a seguito dell’esito referendario favorevole. Ciò in quanto in caso di prevalenza del NO continueranno a godere delle attuali loro condizioni del vivere civile.

L’interesse collettivo in gioco
In sintesi, i cittadini avranno l’onere di intuire se con la rinnovata Costituzione vivranno meglio o peggio di prima. E ancora. Se saranno più uguali di oggi nel godimento dei servizi pubblici e nella percezione delle prestazioni essenziali. Se il sistema del welfare assistenziale e quello autonomistico territoriale saranno sostenibili, rispetto alla odierna insostenibilità che fa arretrare sempre di più il sud del Paese e che determina gravi diseguaglianze sostanziali.
Oltre a ciò, i cittadini dovranno mettere in relazione l’esito del voto con la attuazione delle importanti riforme strutturali in atto nel Paese, protese a renderlo più dinamico, più attrattivo e più competitivo a livello comunitario. Una obiettivo irrinunciabile, come ha sottolineato in questi giorni anche la stampa economica di Oltreoceano e dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem, che ha ritenuto indispensabile il positivo completamento delle riforme istituzionali e strutturali intraprese dal governo Renzi
L’ovvio riferimento è a quanto l’attuale governo, raccogliendo ciò che di buono hanno seminato i due che lo hanno preceduto, ha prodotto in tema di riforme dell’ordinamento autonomistico, della pubblica amministrazione in generale e della finanza pubblica. Su tutti, le leggi Delrio e Madia, quest’ultima con oltre 20 decreti delegati al seguito che stravolgeranno in senso favorevole il modo di essere PA, il nuovo codice degli appalti e l’introduzione della legge di bilancio unificata, oltre alla riforma in itinere della legge fallimentare.

Tre buoni motivi per votare SI
Il ritorno ovvero l’attribuzione in capo allo Stato di alcune competenze esclusive (su tutte, disciplina giuridica di tutti i dipendenti della PA, sicurezza alimentare, turismo, trasporto e grandi reti, protezione civile, energia e infrastrutture strategiche) si rendono garanti di un migliore funzionamento del sistema pubblico. Oltre a tutto questo, la revisione costituzionale garantirà maggiori certezze in relazione all’esigibilità dei diritti sociali, sino ad oggi compromessa specie nel sud, e alla sostenibilità delle Regioni, delle Città met
ropolitane e dei Comuni.
Nella sostanza, la collettività nazionale nel prossimo autunno/inverno dovrà dire SI se sostanzialmente pretende:

Una sanità e un’assistenza sociale degne del loro nome
Con il nuovo testo costituzionale (integrazione art. 117, c. 2, lett. m) si avranno, finalmente, una sanità e un’assistenza sociale (quest’ultima sino ad oggi rimessa, per assurdo, alla competenza esclusiva delle Regioni) degne di questo nome, attraverso la formazione di un welfare assistenziale integrato che renda più uguali i cittadini. Lo si avrà attraverso l’attrazione in capo allo Stato della tutela della salute e delle politiche sociali, che consentirà un’assistenza socio-sanitaria non più disegnata discriminatamente e male dalle Regioni bensì dalle regole statali.
Ciò in quanto viene attribuita alla competenza esclusiva dello Stato – oltre alla individuazione dei livelli essenziali di assistenza (che non sono altro che le prestazioni che il Sistema sanitario nazionale è tenuto a garantire a tutti, con o senza aggravio di ticket, finanziate con la fiscalità generale) – l’approvazione delle «disposizioni generali e comuni», funzionali a determinare la concreta e dettagliata portata degli interventi sanitari e/o sociali minimi da garantire alla collettività.
Per meglio comprendere la novità, è appena il caso di sottolineare che i Lea altro non sono che le attività, distinte per tipologia scientifica, assicurate dal sistema pubblico e privato idoneo e abilitato ad hoc, in un regime di appropriatezza. Un valore, quest’ultimo, che ha rappresentato e rappresenta per molti italiani (in cima, i 25 milioni con i Sistemi sanitari regionali commissariati) un elemento di misura quali-quantitativa prevalentemente teorico e, dunque, non rivendicabile. Un deficit che troverebbe – per l’appunto – nelle «disposizioni generali e comuni», se bene esercitate dal legislatore statale, la garanzia di un loro corretto godimento. Ciò in quanto il medesimo potrà fissare legislativamente regole invalicabili per garantire lo spessore e i tempi di esecuzione delle prestazioni dovute alla collettività, con consequenziale giustiziabilità del diritto relativo nel caso di sua lesione.

Una finanza pubblica che renda giustizia sociale
Con la vittoria del SI si perverrà ad un coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (integrazione art. 117, c. 2, lett. e) gestito unicamente dallo Stato, che si renda (finalmente) garante di una equa distribuzione delle risorse nel Paese. Non solo. Il finanziamento dei servizi pubblici e delle prestazioni essenziali sarà fondato (finalmente) sui costi e fabbisogni standard costituzionalizzati (meglio, un uguale finanziamento per tutti, nella sanità come per gli enti territoriali, incrementato in presenza di popolazione più anziana e di maggiore povertà) anziché sull’attuale, ma obsoleta, metodologia dei trasferimenti effettuati per quota pro capite erroneamente pesata, che ha indebolito e indebolisce sempre di più i territori più bisognosi.
Con questo (art. 119, c. 4), sarà dato modo al legislatore ordinario di stabilire uguali e ottimali valori di finanziamento vincolato per sanità, Regioni, Città metropolitane e Comuni per gestire ciascuno tutte le funzioni pubbliche loro attribuite. Agli Enti più poveri in termini di gettito fiscale sarà, pertanto, riconosciuta attraverso la perequazione verticale la differenza utile (tra il costo/fabbisogno standard calcolato e quanto incassato autonomamente attraverso i tributi). Un modo per assicurare a tutti gli Enti, diligenti nell’esercitare le proprie politiche fiscali, una uguale disponibilità per garantire ai propri cittadini tutto ciò che a loro spetta, a mente della Costituzione.

Un’organizzazione utile a rendere gli enti locali virtuosi
L’ipotesi costituzionale al vaglio del referendum garantirà un sistema degli enti locali finalmente sgravato della inutilità delle Province (espunte, principalmente, dalla lettera dell’art. 114), fino ad assorbire tante risorse a fronte del quasi nulla. E ancora. Un riordino del sistema dei Comuni, basato su principi aggregativi (integrazione art. 117, c. 2, lett. p) fissati esclusivamente dallo Stato, che funzioni in modo trasparente e semplificato, con evidenziate responsabilità degli amministratori incapaci (introduzione comma 2 dell’art. 118).
Una novità non di poco conto che:
– da una parte, offrirà una soluzione all’appesantimento del sistema territoriale gravato da una sorta di pachidermismo che, a causa dell’eccessiva consistenza di comuni e di partecipate pubbliche al seguito, è divenuto finanziariamente sofferente a tal punto da non assicurare le funzioni istituzionali attribuite;
– dall’altra, garantirà un riordino complessivo del sistema autonomistico locale in coerenza con le riforme in itinere (Delrio e Madia) funzionali a fare ripartire, in senso favorevole, la filiera degli enti locali che, da sempre, rappresentano il punto di forza del Paese, sia in termini di dedizione ai bisogni dei cittadini che di gestione più intelligente delle risorse pubbliche, in quanto esposta ad un controllo più serrato da parte della collettività locale, attenta all’esercizio della spesa effettuata prevalentemente con le risorse provenienti dalla fiscalità locale che grava sulle sue tasche.
A ben vedere, una griglia di desideri sociali, quella appena scandita, realizzabili solo depositando ragionevolmente nelle urne il consenso al prossimo appuntamento referendario.

L’autogol di Stefano Parisi (che offre tuttavia una buona occasione)
D’altronde, anche la proposta politica del neoleader di Forza Italia, Stefano Parisi, sembra dare ragione al SI, atteso che lo stesso non sindaca negativamente il testo revisionato, condiviso dal Parlamento in sei letture, nella parte in cui ridisegna l’attività legislativa.
Al riguardo, lo stesso infatti boccia l’iniziativa del centrosinistra solo sotto il profilo metodologico, ritenendo di rimettere la decisione ad una Costituente da eleggere in una al prossimo turno elettorale da prevedere per la fine dell’anno. Una implicita condivisione del merito che offrirebbe l’opportunità di assicurare, previa modifica dell’Italicum, un generale passaggio favorevole dell’esito referendario con la prospettiva di una apposita Assemblea costituente volta a correggere ciò che poteva essere scritto meglio. Una opzione che consentirebbe al Paese di fare, da subito, quanto deve in termini di ripristino della correttezza legislativa e di rilancio dell’economia nonché di pensare, nel medio termine, come e quando aggiustare le regole costituzionali ove esse non sono condivisibili. In una tale occasione potranno, attraverso un intenso dibattito parlamentare propedeutico al raggiungimento di un voto il più condiviso possibile, raggiungersi traguardi più «coraggiosi», non solo afferenti ad un più corretto disegno del Parlamento e della sua attività bensì riguardanti l’attuale configurazione del sistema autonomistico territoriale, con particolare riferimento alle Regioni. Un confronto necessario, quello relativo alla loro perdurante esistenza, atteso che esse rappresentano i siti ove si registrano, tra l’altro, la maggiore e peggiore spesa, la minore efficienza ed efficacia nella pratica amministrativa, sovente uno scadente prodotto legislativo, l’incapacità a programmare e spendere la totalità dei fondi strutturali, una erogazione dei diritti sociali da terzo mondo (basti pensare alla sanità e all’assistenza sociale in quasi tutto il Mezzogiorno) e la più alta influenza del malaffare. Motivi che ne giustificherebbero la soppressione, l’espunzione dalla Carta costituzionale o, quantomeno, una loro aggregazione in tre/quattro macroaree più garanti di un migliore funzionamento.

*docente Unical

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