REGGIO CALABRIA Una piazza per riflettere e non solo per protestare. Una piazza per richiamare alla responsabilità e all’impegno personale, che vuole stanare chi si limita a trincerarsi dietro l’indignazione collettiva. Ma anche per richiamare le istituzioni a svolgere concretamente il ruolo di tutore degli ultimi cui spesso si richiamano in discorsi ed eventi ufficiali. È questo il significato del presidio convocato dalle femministe della Collettiva Autonomia oggi pomeriggio a Reggio Calabria, in seguito all’arresto dei nove uomini responsabili a vario titolo dell’inferno di abusi e violenze in cui è stata precipitata una ragazzina di Melito. Una barbarie – spiegano le attiviste – in cui la ‘ndrangheta è «solo una specificità territoriale, un aggravante collaterale, perché gli abusi sulle donne succedono a Reggio Calabria, come a Milano, Roma, Bologna o in Europa». Non si tratta – sottolineano dalla collettiva – di un’attenuante, ma della necessaria contestualizzazione di un fenomeno culturale e sociale che troppo spesso passa sotto silenzio. Una cappa – emerge dagli interventi dei pochi attivisti e cittadini arrivati in piazza – sotto cui si consumano abusi e violenze, che il più delle volte rimangono senza colpevoli. A garantire l’impunità è una mentalità – non semplicemente mafiosa – che vuole la donna ” inchiodata al binomio santa/buttana”, ma soprattutto che relega qualsiasi abuso alla sfera del “fatti i fatti tuoi”. Un indice chiaro del deficit di educazione alla legalità che traspare dalla mancanza di denunce, come di partecipazione alle mobilitazioni. In piazza ci sono gli attivisti di sempre, le stesse facce che si incontrano ogni volta che c’è un appello ad alzare la testa contro ingiustizie e abusi. Reggio Calabria invece non c’è. E alla domanda, tragica, su quante ragazzine siano costrette a vivere il medesimo incubo risponde con il pigno è indifferente passeggiare sul corso Garibaldi.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal
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