La disperazione è una malattia sociale. Forse la peggiore. Corrado Alvaro amava dire che «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». In Calabria e nel Sud il rischio che stiamo correndo è di permanere in una condizione di subalternità culturale rispetto agli altri territori del Paese, accettando come ineluttabile un destino amaro segnato dalle ingiustizie e dal malaffare. Il problema criminale è innegabilmente parte costitutiva della Questione meridionale, ma non può, in alcun modo, esaurirne la complessità dei suoi paradigmi. Dietro le vicende di Melito Porto Salvo e Nicotera, con il loro miserabile apparato di responsabilità individuali e collettive, non si cela soltanto il dominio mafioso con le sue necessità di comunicazione sociale. Le mafie sono l’epifenomeno di un problema strutturale sul piano socio-economico che caratterizza la storia del Mezzogiorno prima e dopo l’Unità del Paese. Il Meridione non è riuscito a mettere compiutamente in discussione la forma padronale, di matrice feudale, delle sue relazioni di potere sociale, neanche in questi 70 anni di storia repubblicana. La nostra è, infatti, ancora una società di padroni, che si nutre di rapporti verticali funzionali a modelli di organizzazione piramidale della vita pubblica. A Sud di Roma, e in Calabria specialmente, vi sono larghi strati della popolazione che non faticano a riconoscersi quali portatori della peggiore antropologia educativa: quella dell’uomo-struzzo.
La cosiddetta antimafia di professione, lautamente pagata con denaro pubblico in tutti questi anni per ogni genere di proposta educativa messa in cantiere, non ha quasi mai affrontato con rigore scientifico il tema della fenomenologia dell’oppressione che si pone come sovrastruttura ideologica dell’economia padronale meridionale. A Melito come a Nicotera, ma è così in molte aree del Mezzogiorno, prevalgono una morale privata ed un’etica pubblica figlie concettuali di un’ideologia del silenzio e della rassegnazione, che ha sequestrato il nostro presente, amputando il futuro delle giovani generazioni. L’uomo-struzzo non deve né vedere né sentire, ma solo tacere perché è destinato all’obbedienza padronale. Regola aurea vigente sia per coloro che sapevano della mattanza da “Arancia meccanica” alla quale era sottoposta l’adolescente di Melito Porto Salvo, sia per le decine di nicoteresi che osservavano l’arrivo dell’elicottero degli sposi, accolti da non pochi applausi nella piazza comunale.
La Costituzione nata dalla Resistenza è materia ancora sconosciuta nel tessuto socio-culturale del Meridione. Al Sud non serve più l’antimafia dei cortei e delle liturgie convegnistiche, che hanno ridotto la Questione meridionale a mera criminologia, con la quale segmenti nodali dello Stato hanno trasformato il disegno dell’emancipazione collettiva delle nostre terre in un bisogno personale di affermazione e prestigio sociale. La centralità della nuova Questione meridionale è determinata dall’urgenza di frantumare il paradigma padronale dell’inginocchiatoio, che sta avvelenando i pozzi della speranza. E una società senza speranza non è altro che una comunità di sepolcri imbiancati destinata a sporcare l’esistenza, ammantando con il nero della disperazione la bellezza dell’azzurro del cielo. Soltanto frantumando la struttura padronale dell’economia meridionale, riusciremo a costruire un nuovo habitat educativo per la nostra gente. Antonio Gramsci osservava opportunamente che se ogni relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un rapporto di potere. Una nuova egemonia culturale deve farsi progetto di cambiamento di questo modo di intendere e vivere le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche. Dal 2000 ad oggi, la Svimez ci spiega che sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno, in larga parte laureati e sotto i 35 anni di età. Sempre secondo questo importante centro di ricerca, entro il 2050 solamente 1 italiano su 4 abiterà le città meridionali. Scientificamente si chiama desertificazione civile, politicamente è un olocausto. Se non vogliamo altre Melito e Nicotera, dobbiamo uscire dall’ipocrisia di certa antimafia, fatta di sirene estetizzanti, spasmodica ricerca di denaro pubblico, danze folcloristiche. E, invece, rilanciare con forza la centralità dello sviluppo del Meridione, a cui non bastano le politiche sull’ordine pubblico e la diligente azione repressiva della Magistratura, ma soprattutto occorrono interventi strutturali in materia di capitale umano, leve fiscali, innovazione logistica e tecnologica. Il Mezzogiorno non può continuare ad essere una “questione”, ma deve diventare il cantiere di una rinnovata speranza: da non-luogo del presente a luogo del futuro.
*Docente Unical
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