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Il capolarato è reato di mafia

Almeno una volta l’anno – ma da oltre 50 – si parla di caporalato! Questa volta c’è voluto il caso della Puglia, dove è morta una giovane madre ultrastanca di lavoro per una paga miserrima. Due-tre…

Pubblicato il: 30/09/2016 – 17:22

Almeno una volta l’anno – ma da oltre 50 – si parla di caporalato! Questa volta c’è voluto il caso della Puglia, dove è morta una giovane madre ultrastanca di lavoro per una paga miserrima. Due-tre giorni di cronaca e di commenti, alcune prese di posizione istituzionali, di associazioni cattoliche e non, poi tutto ripiomba nel dimenticatoio. I caporali sono sempre esistiti e non finiranno mai di proseguire nella loro azione di sfruttamento. Una volta, forse, più “coperti”, oggi con maggiore discrezione, ma il risultato non cambia. Vivono sulle spalle di poveri lavoratori, una volta esclusivamente italiani, oggi a maggioranza stranieri. Eppure basta andare, solo per qualche esempio, nella piana di Sibari o in quella di Rosarno-Gioia Tauro, a seconda delle produzioni agricole, e non è molto difficile trovare quanti vivono – e bene – sulle spalle di quanti si caricano di fatica. Si stima che nella piana di Sibari siano almeno seimila i braccianti – nel senso letterale del termine, persone usate perché dotate di braccia – che vivono sotto un caporale (ai tempi della seconda guerra mondiale c’erano i kapò) – sfruttate, sotto salario, al nero, senza orari, senza sicurezza, costrette a chiedere al caporale quanto serve loro per trascorrere l’intera giornata di lavoro. Compreso il trasporto dal luogo di abitazione alle campagna di raccolta di pomodori, pesche, nettarine, arance, mandarini, ulive. Si fanno trovare in mezzo alla strada – non certo in centro – per evitare di essere visti e così uomini e donne vengono caricati all’alba sui camioncini, quasi sempre seduti su sacchi di iuta, cotti dalla fatica, morti di sonno e (tras)portati nel terreno dove vengono usati come mazze di fatica. Una condizione che definire di puro schiavismo non rende appieno l’idea di degrado allo stato puro a cui, se vogliono guadagnare venticinque euro al giorno, dopo dieci o dodici ore di lavoro, devono sottostare. Prendere o lasciare o morire di fame, freddo, sonno. Con i calabresi delle piane di Sibari e Rosarno, ci sono i migrantes che vengono dal Burkina Faso, dalla Costa d’Avorio, dal Senegal, dal Marocco. Un esercito invisibile di macchine in pelle ed ossa che pur di non sottostare ai regimi dei loro Paesi di origine, è costretto a subire le angherie dei caporali. C’è, tra questi, chi fornisce a spese del lavoratore, un tozzo di pane, un tugurio. C’è chi preferisce viaggiare e farsi trasportare come bestiame, pur di far rientro a casa,almeno ad incontrare marito e figli per poche ore. Ma si tratta di tendopoli, tuguri, cartoni? Che importa, rispondono. Almeno non corriamo i rischi dei nostri Paesi,ai quali siamo sempre legati, ma nei quali non si può più vivere.
Non è difficile riconoscere questi sventurati perché, sulla SS 106 o sulla SS 18, li vedi più o meno in fila, in attesa del caporale col camioncino che li conduce, come un tempo i cari bestiame, sul luoghi di lavoro. Ti piange il cuore, ma non sai che fare. La fretta, i tuoi impegni, il menefreghismo non aiutano il tuo fratello dalla pelle diversa dalla tua, ma – in gran parte – col cuore caldo di affetto e di miseria. Due euro l’ora? Ma c’è qualcuno che ci pensa, Carithas a parte? È inaccettabile, davvero, così come lo sono gli atteggiamenti omertosi che avvolgono troppo spesso questi fatti. «Indignarsi non basta», hanno scritto su Repubblica i ministri Andrea Orlando e Maurizio Martina. «C’è la necessità di alzare il livello di consapevolezza e di contrasto al fenomeno del caporalato. Un dovere per noi», hanno scritto. A parere dei due uomini di governo si devono coinvolgere tutti gli attori delle filiere produttive, il mondo del lavoro e del sindacato, la grande distribuzione organizzata. Un altro fronte d’azione, a parere di Martina e Orlando, è il rafforzamento delle norme di contrasto al caporalato, che è già, di per sé, reato di mafia. Ma, siccome fatta la legge si trova l’inganno, occorre pensare alla possibile estensione delle misure di prevenzione patrimoniale antimafia a chi si avvale di caporali, alla responsabilità dell’impresa che ne trae beneficio “a valle” e all’avvio di programmi specifici per sostenere ed accompagnare il lavoratore che ha il coraggio di denunziare il proprio caporale. Insomma la confisca dei beni. Infine si deve colpire la ricchezza generata dallo sfruttamento illecito del lavoro. Il governo è impegnato? I due ministri lo confermano. Ma anche il presidente Renzi ha appena twittato l’urgenza di intervenire!

*Giornalista

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