SALINE JONICHE Greenpeace si schiera contro il progetto di centrale a carbone che la multinazionale elvetica Sei-Repower progetta di costruire sulle ceneri della Liquichimica di Saline Joniche. Gli attivisti hanno iniziato questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”. «È un messaggio per la Sei come per Renzi-Repower – scrivono dal desk internazionale dell’organizzazione ambientalista –. Il governo deve fissare una data chiara per mettere fine alla produzione di energia da carbone in Italia».
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Da anni, la multinazionale elvetica tenta di impiantare una fabbrica a carbone, nonostante l’opposizione della popolazione locale. Il progetto, che ha ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva dal governo Monti nonostante la presenza di una riserva naturale protetta nell’area di costruzione della centrale, è stato bloccato da una sentenza del Tar del Lazio, che ha accolto il ricorso presentato da Regione, Comuni e associazioni ambientaliste dell’Area grecanica. Una decisione ribaltata dal Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso avanzato dalla Sei (la multinazionale svizzera che intende realizzare la megaopera sul litorale jonico reggino) e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dando nuovamente il via libera alle autorizzazioni per la costruzione dell’impianto.
La centrale dovrebbe nascere sui ruderi dell’ex Liquichimica, il mostro creato nel 1974 con i finanziamenti del pacchetto Colombo. Costata all’epoca 300 milioni, avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo industriale di una delle province più depresse d’Italia. Da più parti però, quell’investimento è stato interpretato come il prezzo che il governo è stato costretto a pagare per comprare la pace a Reggio Calabria, dove i Boia chi molla, guidati dal sindacalista della Cisnal e senatore missino, Ciccio Franco, si erano messi alla testa della rivolta popolare, scoppiata dopo l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro.
La Liquichimica è figlia di quel baratto. Dopo avere speso quel fiume di denaro pubblico, le istituzioni hanno bollato la produzione – bioproteine per mangimi animali – come «altamente inquinante». E l’impianto è stato bloccato e chiuso due mesi dopo l’apertura dei battenti. Trecento milioni di lire dell’epoca andati in fumo, seicento lavoratori assunti, finiti in cassa integrazione. A Saline è rimasta solo una struttura divenuta simbolo delle cattedrali nel deserto.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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