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Il boss minaccia il pm, ma dormono tutti

Dormono tutti. Davanti al boss che impreca e minaccia, che insulta e aggredisce il pubblico ministero Marisa Manzini all’interno di un’aula di giustizia e nel corso di un’udienza pubblica, quella s…

Pubblicato il: 12/10/2016 – 20:14
Il boss minaccia il pm, ma dormono tutti

Dormono tutti. Davanti al boss che impreca e minaccia, che insulta e aggredisce il pubblico ministero Marisa Manzini all’interno di un’aula di giustizia e nel corso di un’udienza pubblica, quella schiera di sepolcri imbiancati che predicano di lotta alla ‘ndrangheta e legalità davanti alle telecamere o nei convegni dell’antimafia con la partita iva, diventano ancora più imbiancati fino ad apparire quello che sono: strutture evanescenti funzionali alla costante crescita della criminalità politico-massonico-mafiosa.
Dorme il Tribunale di Vibo Valentia e dorme il collegio giudicante. Dormono le camere penali e dorme l’Associazione nazionale magistrati. Dorme il ministro della Giustizia e dormono i membri, togati e non, del Consiglio superiore della magistratura. Dorme la commissione parlamentare antimafia e dorme la Commissione regionale anti-‘ndrangheta.
Dorme la deputazione calabrese (duole dirlo, ma in questa circostanza proprio tutta la deputazione, 5stelle compresi) e dorme Santa romana chiesa. Dormono le questure e dorme la polizia penitenziaria.
Lui, invece, no. Lui non dorme, anzi recupera il fiero cipiglio del boss che detta regole e impone l’ordine dei lavori in un’aula dove la legge dovrebbe essere sovrana ed uguale per tutti. Il casato glielo impone e il rango mafioso glielo consente. È pur sempre Pantaleone Mancuso alias “Luni scarpuni”, di quei Mancuso che spiegavano ai nuovi adepti: la ‘ndrangheta oggi non esiste più, è piccola malandrineria, la ‘ndrangheta vera si chiama massoneria e governa con lo Stato.
E meno male che in aula a Vibo Luni Mancuso non ci può stare, deve accontentarsi di assistere in videoconferenza dal carcere de l’Aquila, dove è ristretto, altrimenti chissà se si sarebbe limitato a insulti e minacce verbali.
Ha ragione da vendere quella cronista di razza che è Marialucia Conistabile quando desolata, ma con coraggio, commenta la surreale udienza scrivendo su Gazzetta del Sud «… se qualcuno avesse avuto tra le mani un kalashnikov sarebbe stata una strage. E a essere ammazzata sarebbe stata innanzitutto la giustizia. Una giornata brutta, una giornata nera per chi ancora, nonostante tutto, nella giustizia crede».
A far saltare i nervi al boss è stata la deposizione di un killer pentito, Andrea Mantella, che in aula confessa di aver commesso otto omicidi. Marisa Manzini incalza il collaboratore con domande che portano a disvelare un reticolo di delitti atroci, complicità devastanti, inquinamenti istituzionali e imprenditoriali inimmaginabili. È il processo Black Money a carico dei Mancuso di Limbadi che questa volta rischia di portare conseguenze gravissime ad uno dei clan più temuti della ‘ndrangheta calabrese. Del resto a collaborare non è solo un esponente di rilievo della ‘ndrangheta vibonese, Mantella è anche cognato di Pasquale Giampà (alias Millelire) di Lamezia Terme, anche lui pentito.
Che non fosse normale amministrazione, quella udienza, facile intuirlo ma nessuno poteva paventare che si arrivasse a scrivere una delle pagine più vergognose e nere nella storia della giustizia italiana.
In quell’aula la legge è stata oltremodo oltraggiata. Davanti a un Tribunale che farebbe impallidire don Abbondio è successo di tutto e di più, in un crescendo che nessuno ha saputo o voluto dominare e che tocca l’apice quando il boss Pantaleone Mancuso intima «stai zitta tu» al pm Marisa Manzini e continua tra insulti e minacce senza che nessuno lo interrompa. E lui ne approfitta, scaricandole addosso un livore e un rancore covato da anni.
Non da meno le sortite del pentito contro gli avvocati del collegio di difesa, ai quali predice un futuro carcerario. Ma mentre agli avvocati arriverà, sollecita, la solidarietà dei colleghi, neanche una parola verrà spesa a riparo delle ben più pesanti minacce e dei ripetuti insulti che il boss in gabbia lancia verso Marisa Manzini. Non le perdona l’aver mantenuto il ruolo di accusatore anche dopo il suo trasferimento e la promozione a procuratore aggiunto di Cosenza.
E se Mantella dà del «pagliaccio» al difensore di Mancuso, Luni Mancuso viene lasciato libero di indicare chi lo accusa come «un caprone che si accoppiava come le capre…è una feccia…, un bugiardo e il pm Manzini lo sa che è un imbroglione». E sempre Luni Mancuso è libero di “consigliare” alla Manzini «Fai silenzio, stai zitta…». Per poi accusarla di essere la causa del suicidio della moglie Tita Buccafusca: «Non ho colpe io per la morte di mia moglie. Il pubblico ministero si diverte e gode di questa mia disgrazia e del suicidio di mia moglie. Qui la colpa è della Manzini e dei carabinieri. Io ho fatto di tutto perché vivesse. È ora che gli inquirenti la smettano e si mettano l’animo in pace perché mia moglie non ha rilasciato dichiarazioni a nessuno».
E il tribunale? Si limita a incassare le tardive e ipocrite scuse del boss: «Mi sono lasciato andare, scusate, ma sono molto arrabbiato perché sono vittima di un complotto». Talmente sentite, le sue scuse, che un attimo dopo ricomincia a intimidire e insultare il pubblico ministero e già che si trova libero del campo, aggiunge nell’elenco dei bersagli l’ex cognata (Ewelina Pytlarz) anche lei testimone di giustizia («una poveraccia»), i testimoni a suo carico Vincenzo Ceravolo e Salvatore Barbagallo, e l’imprenditore Francesco Cascasi: «Hanno detto un sacco di frottole»
E il tribunale? Alla fine è intervenuto ma solo per accogliere l’opposizione della difesa alla richiesta formulata dall’avvocato del pentito Mantella, Francesco Stilo. Voleva si chiedesse al suo difeso di fare i nomi degli avvocati che gli avrebbero consegnato messaggi finalizzati a bloccarne la collaborazione. Secco il commento dell’avv. Stilo: «Coraggioso questo collegio!». Tre parole che gli avvocati della difesa considerano sufficienti per un procedimento disciplinare a carico del proprio collega e per questo hanno chiesto al Tribunale di «trasmettere al Foro in cui è iscritto l’avv. Stilo il verbale dell’udienza affinché venga valutata l’adozione di provvedimenti disciplinari».
Il Tribunale si è riservato di decidere.

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