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Le accuse gravi del boss e il nostro (colpevole) ritardo

Le minacce nei confronti del procuratore aggiunto di Cosenza, Marisa Manzini, sono inquietanti. Lo dico in primo luogo per le modalità utilizzate dal boss Pantaleone Mancuso, le quali danno due ind…

Pubblicato il: 14/10/2016 – 14:38
Le accuse gravi del boss e il nostro (colpevole) ritardo

Le minacce nei confronti del procuratore aggiunto di Cosenza, Marisa Manzini, sono inquietanti. Lo dico in primo luogo per le modalità utilizzate dal boss Pantaleone Mancuso, le quali danno due indicazioni: 1) l’idea – dell’autore – che la ‘ndrangheta possa sempre e comunque dissacrare un rito della giustizia dello Stato; 2) la volontà, forse scientifica, di fornire un segnale di forza attraverso il riverbero mediatico dell’episodio.
La gravità delle affermazioni del Mancuso contro il predetto magistrato, applicato alla Dda di Catanzaro, fornisce un terzo elemento di riflessione, stavolta politica. Oggi lo Stato è debole, e forse troppo intaccato al suo interno. Perfino giudicati e pregiudicati, dunque, si permettono di invertire l’ordine dei rapporti, di inveire e di ordinare il silenzio della pubblica accusa, come avvenuto nella fattispecie.
Faccio ammenda, anche noi 5 stelle non siamo intervenuti nell’immediato, come invece dovevamo. Non cerco scuse o attenuanti, per carità. Il problema è, però, culturale, intendendo l’aggettivo nell’accezione più ampia. E c’è una seconda questione, direi legata alla specifica attività del parlamento. Vado con ordine.
Purtroppo in politica è frequente perdere le coordinate. Non ci rimbalza spesso, e parlo degli eletti d’ogni parrocchia in generale, l’idea di trovarci a operare in – e per – un territorio, quello calabrese, profondamente inquinato dalla ‘ndrangheta, perfino a livelli istituzionali. Questo accade perché nel contesto culturale in cui galleggiamo abbiamo dimenticato alla svelta che esiste una questione meridionale tutta aperta, in Calabria ancor più pesante e trascurata, permanendo la dipendenza dalla sede centrale del potere. Tale sudditanza si sostanzia in un noto scambio: da Roma arrivano fondi per alimentare un vecchio e inumano precariato, poiché la periferia ha avanzato richiesta di misure specifiche, cui corrisponde un preciso valore elettorale. Se ci fosse il reddito di cittadinanza, ciò non avverrebbe: si interromperebbe il riferito, perverso legame tra le centrali di comando dei partiti e i loro terminali sul territorio. 
In quanto ai lavori parlamentari, essi si caratterizzano per una ridondanza di materiali e momenti preparatori, i quali non hanno quasi mai un approdo di concreta utilità pubblica. Ne è prova il ricorso costante alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia, che annulla i processi democratici in un baleno. Intendo significare che un parlamentare è preso da una serie di compiti e adempimenti camerali che non determinano, poi, un cambiamento significativo della realtà. Anche la commissione parlamentare Antimafia è diventata, nel tempo, uno strumento poco efficace e dunque, per certi versi, atto ad alimentare l’ipotesi della sua inutilità, che viaggia sempre più spedita. Per dovere di mandato, restiamo chiusi nelle aule e sedi parlamentari, ma c’è bisogno di una presenza maggiore sul territorio. Lo dico benché noi 5 Stelle giriamo la Calabria in lungo e largo.
In sintesi, dobbiamo partire dalle recenti minacce a Marisa Manzini per compiere una riflessione su come noi della politica stiamo contrastando la ‘ndrangheta, sulle forme verbali e sugli strumenti legali adottati, sui contenuti culturali che abbiamo veicolato a questo riguardo e sull’esempio che noi stessi abbiamo dato – o non dato – nel difendere lo Stato dal virus mafioso e dal suo linguaggio.

*Deputata M5S

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