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I vescovi facciano chiarezza sulla scomunica ai mafiosi

Non siamo più negli anni Settanta, quando parroci e vescovi non trovavano nulla da ridire sul fatto che imprendibili latitanti di ‘ndrangheta, celebre fu il caso di Saro Mammoliti, convolassero a g…

Pubblicato il: 24/10/2016 – 16:51
I vescovi facciano chiarezza sulla scomunica ai mafiosi

Non siamo più negli anni Settanta, quando parroci e vescovi non trovavano nulla da ridire sul fatto che imprendibili latitanti di ‘ndrangheta, celebre fu il caso di Saro Mammoliti, convolassero a giuste nozze con tanto di cerimonia in chiesa, ospiti e bomboniere. Nessun corso di preparazione al matrimonio, pubblicazioni sapientemente mimetizzate e poi il prete di famiglia che, nottetempo, benedice le fedi e gli sposi e con tanto di testimoni e… padrini a certificare la “regolarità” del matrimonio, in barba alla legge e agli “sbirri”.
Oggi c’è conflitto nella chiesa sulle posizioni da prendere davanti alla criminalità mafiosa. Troppo sangue, troppe faide, troppi traffici illeciti, troppe riduzioni in schiavitù per consentire che Santa romana chiesa continui a minimizzare la ‘ndrangheta, i suoi affiliati, le loro gesta.
A sentire il parroco di Platì, però, non basta una sentenza definitiva di condanna per stabilire l’appartenenza alla ‘ndrangheta. Né basta il mancato pentimento. È giusto, di conseguenza, attivare una sorta di “obiezione di coscienza” davanti ai decreti del prefetto e alle ordinanze del questore, quando vietano un funerale o impediscono che dei sacramenti, soprattutto del battesimo, si dia una lettura a dir poco “laica”.
Dovesse servire conoscere il nostro orientamento personale, diciamo ancora una volta per averlo scritto anche in passato, che impedire un funerale, a meno che non si tratti di seppellire i caduti di una faida in corso e quindi di tutelare un reale rischio per l’ordine pubblico, è una sciocchezza perché limita importanti conoscenze investigative.
I vecchi investigatori, quelli che battevano il territorio e “sentivano” le mutazioni della ‘ndrangheta, facevano tesoro proprio di circostanze come i funerali e i matrimoni per capire i rapporti tra le varie famiglie di ‘ndrangheta. Le assenze erano utilissime quanto le presenze. Tutto finiva sui taccuini e spesso si riversava in preziose “relazioni di servizio”.
Lasciamo da parte la lettura laica di quanto accaduto in quel di Platì, che oggi fa svegliare le prime pagine dei “grandi giornali”, sempre impegnate a descrivere il dito e mai a esplorare la luna.
Occupiamoci dell’aspetto religioso. Se la Chiesa, attraverso il suo più alto rappresentante, scomunica la ‘ndrangheta e un “cristiano” sceglie di restare fedele alla ‘ndrangheta, ha diritto ai sacramenti religiosi riservati alla comunità dei cristiani?
Non c’è alcun intento provocatorio nel porre questo interrogativo ai vescovi e ai preti calabresi. C’è solo il desiderio di capire se almeno nelle “cose di chiesa” possiamo ottenere quella chiarezza che ai calabresi è negata in politica, nel mondo del lavoro, in sede scolastica, sul terreno dell’informazione e via dicendo.
La scomunica non è un decreto prefettizio e neanche un’ordinanza del questore. Lo stato “piemontese” non c’entra niente. La scomunica è una «pena canonica, irrogata nella Chiesa cristiana, che implica l’esclusione di un suo membro dalla comunità dei fedeli a causa di gravi e ostinate infrazioni alla morale e/o alla dottrina riconosciuta».
A essere scrupolosi si più aggiungere che «il termine scomunica appare per la prima volta in documenti ecclesiastici nel Quarto secolo e solo nel Quindicesimo secolo si cominciò a fare una distinzione fra gli scomunicati che dovevano essere anche fisicamente allontanati, a causa di gravi errori (i vitandi), e quelli che potevano essere tollerati (i tolerati, che dovevano essere solo rigidamente esclusi dai sacramenti)».
Tutto qui.
La scomunica, insomma, è una libera e autonoma determinazione della Chiesa ma se la si adotta va applicata. O no? Cari vescovi e preti calabresi, ché Platì non è certo un caso isolato, siete voi a dover spiegare ai calabresi come ritenete di operare davanti ad una scomunica decisa a carico degli uomini affiliati alla ‘ndrangheta. Tutto parte dalla visita, 21 giugno 2014, di Papa Francesco a Cassano Jonio. Forse è bene rileggere quelle parole dette nello stile che è di Papa Francesco, cioè in maniera non equivocabile.
«Quando non si adora Dio, il Signore, si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza… La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato! Bisogna dirgli di no!.. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!».
Che valore ha quella scomunica? In che misura vincola la chiesa calabrese ad atti conseguenti? Interrogativi posti a padre Francesco Romano, docente di Diritto canonico alla Facoltà teologica dell’Italia centrale. La sua ragionata risposta la ospitiamo in un servizio a parte con l’obiettivo di stimolare una discussione che finalmente, almeno su questo delicato terreno, si occupi della luna e non del dito.

direttore@corrierecal.it

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