REGGIO CALABRIA Errare è umano, perseverare diabolico. Lo hanno imparato a proprie spese Natale Paviglianiti, elemento di spicco dell’omonimo clan, e Francesco Leone, che tornano in carcere a pochi mesi dalla scarcerazione il primo, poco più di un anno dopo l’altro, perché beccati nuovamente a taglieggiare commercianti e imprenditori. Per questo, sono stati fermati questa mattina all’alba dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria, insieme a Natale David Paviglianiti, Salvatore Polimeni e Angelo Fortunato Chinnì, con l’accusa, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso e di molteplici episodi di estorsione e tentata estorsione aggravate dalle modalità mafiose.
CLAN PICCOLO E FEROCE «Estorsioni, tentativi di accaparrarsi terreni e immobili di vendite giudiziarie, condizionamenti e attentati nei confronti di strutture balneari sono la sintesi dell’attività di questo gruppo di affiliati alla cosca Paviglianiti che avevano ripreso a marcare i territori dei comuni di San Lorenzo, Melito e Condofuri eseguendo attentati e intimidazioni». Un classico per un clan piccolo ma feroce e determinato, per precisa volontà del suo attuale capo Settimo Paviglianiti che – si legge nel fermo – «sulla scorta di quanto riferito dal pentito Giuseppe Ambrogio, avrebbe preferito la qualità alla quantità».
FILMATO INEQUIVOCABILE Innumerevoli invece sono stati invece gli episodi estorsivi che nel corso delle indagini gli investigatori sono riusciti a documentare, perché per il clan, nessuno a San Lorenzo poteva avviare un’attività economica senza versare un “pensiero” per i detenuti. Lo ha confessato, terrorizzato, il proprietario di un supermarket del paese, quando i carabinieri gli hanno mostrato le riprese video della sua concitata conversazione con gli uomini del clan. Un filmato estrapolato dagli investigatori grazie ad una provvidenziale soffiata, che indicava il titolare del market come vittima di estorsione e che ha costretto l’uomo a vincere le proprie paure, rivelando le vessazioni di cui da anni era vittima. Il clan – ha rivelato – da anni lo teneva sotto scacco. E non solo per la sua attività commerciale.
QUEL TERRENO È MIO Anche per quel terreno del valore di 240 mila euro che, pur con mille cautele mirate a garantirsi l’anonimato, si era aggiudicato ad un’asta, Natale Paviglianiti si era presentato a chiedere conto. Quel terreno – ha raccontato l’imprenditore – era nelle mire del clan fin dal 1996, quindi nessuno si sarebbe dovuto permettere di acquisirlo «senza chiedere permesso».
INDAGINE LAMPO Dichiarazioni che sono diventate il punto di partenza per un’indagine lampo. «In meno di un mese – dice soddisfatto il comandante provinciale Scaturii – abbiamo acquisito le dichiarazioni delle vittime, chiesto e ottenuto le intercettazioni, effettuato i riscontri sul territorio, e subito è stato disposto il fermo. Per questo è importante l’apporto che i cittadini, vittime del clan, hanno fornito all’autorità giudiziaria». E da investigatore di lungo corso, che conosce la criminalità organizzata nei suoi mille volti, non esita a dire «I mafiosi si sentono potenti, ma se tutti denunciamo non avranno più questo potere». Sulla stessa linea, il procuratore capo Federico Cafiero de Raho, per il quale «se tutti i cittadini capissero e collaborassero, la ‘ndrangheta sarebbe debellata in 30 giorni».
BANCOMAT Ma la cittadinanza ha paura. E a San Lorenzo, feudo dei Paviglianiti, da anni viene usata come un bancomat dal clan, che non esita a reagire quando qualcuno prova ad alzare la testa. Ha tentato di farlo il proprietario di un noto lido balneare del paese, vittima di un oneroso danneggiamento per aver detto no alla richiesta di denaro avanzata da Angelo Fortunato Chinnì, per conto del clan.
DENUNCIATE «Nessuno si può permettere di contraddirli – ha affermato il comandante della compagnia di Melito Porto Salvo, il capitano Gianluca Piccione, altrimenti iniziano le ritorsioni. Grazie al lavoro svolto in sinergia con la Procura Antimafia e con il comando provinciale, i Carabinieri sono riusciti non solo a liberare onesti cittadini dalla morsa della cosca, ma anche ad assicurare alla giustizia persone pericolose». Per questo il procuratore Cafiero de Raho non si stanca di ricordare «l’estorsione serve al sistema ‘ndrangheta per affermare la propria signoria sul territorio, manifestandosi come organismo superiore cui pagare una tassa» per questo denunciare è un duplice colpo ai clan. «Se i cittadini capissero che c’è una squadra Stato pronta ad intervenire a difesa dei diritti di tutti e collaborassero, il potere della ‘ndrangheta non sarebbe più tale».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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