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La fortezza Platì, dove lo Stato non entra

PLATÌ T’immedesimi nel tenente Giovanni Drogo e rivivi la sua meditabonda ascesa mentre sali verso la Fortezza. Anche questo è un avamposto: Platì è presidio d’Aspromonte che avrebbe ispirato …

Pubblicato il: 28/10/2016 – 14:21
La fortezza Platì, dove lo Stato non entra

PLATÌ T’immedesimi nel tenente Giovanni Drogo e rivivi la sua meditabonda ascesa mentre sali verso la Fortezza. Anche questo è un avamposto: Platì è presidio d’Aspromonte che avrebbe ispirato Buzzati; finisterrae d’Italia e inizio di un altro regno. Mondo a parte. Roccaforte dove lo Stato e i suoi tartari non arrivano mai. Lo “straniero” è inseguito da sguardi diffidenti: sono altri rumpipalli che parleranno male della disgraziata Platì, punto essenziale del “triangolo” con San Luca e Natile di Careri, le Bermuda della ‘ndrangheta, il geometrico santuario da cui promanano i codici e le regole d’onore e d’affari. Qui lo Stato non c’è; e forse adesso anche i preti se ne fanno beffe.
Piazzetta della chiesa. Una stretta bancarella con frutta e ortaggi, il mercatale non alza lo sguardo. Il sole è alto: fa caldo in questo ottobre anomalo di Calabria. Un capannello di uomini a piedi o in scooter, quasi sapessero che ci sarebbero state visite, di sicuro poco gradite. Uno di loro non lascerà mai i visitatori per tutto il tempo del soggiorno.
Dietro la bancarella, il necrologio da cui discende la polemica nazionale: Giuseppe Barbaro, detto “U cenni”. Condannato per associazione mafiosa, malato di cuore, morto in carcere. Barbaro, il cognome della ‘ndrina che regge Platì in sostituzione dello Stato. Per la giustizia e per il questore di Reggio Calabria “U cenni” era un boss, e pertanto niente funerali pubblici, con tanto di ordinanza. Per don Giuseppe Svanera, invece, Barbaro era solo un cristiano su cui far discendere la misericordia di Dio.
Due anni fa, proprio in Calabria, nella Piana di Sibari, Papa Francesco aveva detto che «coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati». Ma Platì, forse, è un’altra libera chiesa in un altro libero Stato. Barbaro ha avuto il suo funerale e, pare, non in forma privata come stabilito dal questore Raffaele Grassi. Ne è nato un pandemonio, con un protagonista assoluto e controverso, don Svanera, già missionario in Africa, parole franche e volto che, di primo acchito, invita a escludere retropensieri, “contiguità” con i pezzi da novanta di queste zone.

LA PIAZZA Don Svanera, adesso, è a Bovalino, pochi chilometri più a valle, sulla costa locridea: tornerà presto. Intanto davanti alla chiesa è un viavai di auto e uno inquietante tripudio di occhiate feroci. Una donna inveisce contro gli sconosciuti: «Malanova! (è una maledizione, ndr) Sempre qua venite?». Ripasserà un paio d’ore dopo per ripetere le stesse imprecazioni, ogni volta accompagnate da gesti plateali e poco ecumenici.
Tutti i ragazzi, a Platì, hanno lo scooter, di norma di grossa cilindrata e d’alto prezzo. Nessuno, nessuno, porta il casco. Tutti, tutti, frenano e osservano con un piglio sospeso tra l’interrogativo e lo sfidante: venuti a crear problemi? Chi stuzzica conoscerà la reazione. Sono ben vestiti e accessoriati: giubbini autunnali e scarpe di marca, orologioni ai polsi. Capelli tagliati modello calciatori. Sono parvenze di modernità in un panorama di costruzioni rustiche e mai completate.
Non passa molto tempo prima che arrivi un nipote di Giuseppe Barbaro. Fede al dito, maglia nera del lutto, scooter rosso con su appiccicato l’adesivo della Madonna della Montagna, custodita nel santuario di Polsi, nel Comune di San Luca. Qui avvenivano i summit di ‘ndrangheta, è qui che va ricercata la matrice del legame perverso tra religione e mafia, con tutti i suoi miti e la mistica degli uomini che ammazzano e spacciano droga, ma pur sempre nella grazia di Dio.
Il nipote tira fuori lo smartphone. Martedì don Svanera si è collegato telefonicamente con la Zanzara, la trasmissione radiofonica di Radio24 condotta da Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Il capannello davanti alla chiesa riascolta interessato e indignato la conversazione. «Il questore – dice il parroco – può comandare per quello che è il suo compito, per i cortei nei luoghi pubblici, non può mettere il naso nella chiesa. La Bibbia dice che Dio non fa preferenze di persone, piaccia o no. I Barbaro famiglia di mafiosi? (il nipote, sulla piazza, non fa un cenno, ndr) A me non frega niente. Se condanniamo (spiritualmente, ndr) uno per associazione mafiosa, cosa facciamo con gli assassini, con i ladri? No, non conosco il clan Barbaro. L’unica cosa che conosco della ‘ndrangheta è quella che avete scritto voi giornalisti. I magistrati? Tanti magistrati appartengono a questa mafia. Non li accuserò mai perché penso che non tocchi a me, ma penso che sia proprio così». «Dica che la ‘ndrangheta fa schifo!», incalza Cruciani (uno del capannello chiosa minaccioso: «Perché non vengono qui ‘sti giornalisti a dire ‘ste cose?). «Sono fesserie – replica don Svanera –, non ho esperienza di ‘ndrangheta e non posso parlare di quello che non ho toccato con mano. Non so se c’è la ‘ndrangheta a Platì. Io, in due anni, non l’ho mai sperimentata».

LUTTO Il nipote di Giuseppe Barbaro si allontana: «La mia famiglia è in lutto e per un mese non accenderemo nemmeno la televisione». Al di là della chiesa la collina graffiata dagli smottamenti rifulge sotto il sole. Sottoterra sono stati scoperti i bunker dei latitanti, la città sotterranea di Platì. Un paesino che ha conosciuto faide sanguinose e imponenti blitz della magistratura. Solo l’operazione Marine, nel 2003, ha portato all’arresto di più di 120 persone in un colpo solo. I carabinieri, oltre mille, erano in assetto da guerra. Impossibile, poi, elencare tutti i fatti di sangue e le incriminazioni precedenti e successive. Il Comune ha subito tre scioglimenti per mafia. Un sindaco, Domenico De Maio, è stato ucciso a colpi di pistola e lupara, nell”85, davanti alla figlia. Nel ’90 a essere freddato è il comandante della stazione dei carabinieri, Antonino Marino. E poi centinaia e centinaia di morti per regolare i conti interni. Essere come San Tommaso può anche essere oltraggio alla verità.

LE ELEZIONI La democrazia è tornata – dopo dieci anni di regime commissariale e il giro a vuoto del 2015, quando le elezioni non si sono svolte per mancanza di liste – solo lo scorso giugno. Ora il sindaco è Rosario Sergi, segnalato dalla commissione Antimafia, poco prima delle elezioni, per via di «rapporti di affinità con esponenti del vertice della cosca Barbaro, tanto con la frangia denominata “Castanu” che con quella denominata “Nigru”». In questo pantano, il Pd al governo del Paese non ci ha messo piede. Il premier Renzi, nel corso dell’ultima Leopolda, aveva sponsorizzato una giovane dirigente del partito calabrese, Anna Rita Leonardi. Una “sindaca coraggio” che, dopo una campagna elettorale durata quasi un anno, ha deciso di non presentare alcuna lista a poche ore dalla scadenza dei termini.
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(Don Giuseppe Svanera)

IL RICORSO Il parroco di Platì scende dall’auto. È cordiale, non sa nemmeno di essere diventato un caso nazionale. No, non posso rilasciare interviste, il vescovo Francesco Oliva me lo ha vietato. Mostra il cellulare, anche i monsignori mandano messaggi: «Basta dichiarazioni alla stampa». «D’accordo», risponde don Svanera. «Silenzio stampa per almeno quattro mesi». «Benissimo».
È bresciano, «ostrega!». Un racconto, una giustificazione la fornisce comunque. Nel tardo pomeriggio di sabato c’è stato un funerale a porte chiuse, con la salma in chiesa. Probabilmente sui banchi della navata non erano seduti solo i parenti più stretti. Un prete, ecco, non può cacciar via i fedeli. La mattina dopo, all’alba, la benedizione: prima alla casa del defunto, poi al cimitero. Qualche ora dopo, un’altra messa in suffragio, che sarebbe stata programmata prima delle disposizioni del questore.
Uno scuolabus si ferma nella piazzetta, i due autisti salutano il parroco con calore: «Don Giuseppe, continui così, Platì è tutta dalla sua parte».
Di certo è inusuale che un prete presenti un ricorso al ministero dell’Interno contro un’ordinanza del questore. Nel documento, affisso in chiesa, il religioso denuncia la negazione del «principio di non ingerenza tra Stato e Chiesa» e la «limitazione allo svolgimento dell’ordinario rito funebre in forma pubblica previsto dal rito cattolico».
Per questa via la Chiesa-Stato Platì diventa lo scenario assurdo di un rinnovato conflitto tra poteri. Siamo all’interpretazione calabrese della Legge delle Guarentigie e dei Patti Lateranensi.
In piazza qualcuno accenna a una contraddizione: pure in carcere ci sono le cappelle; e anzi i detenuti che non le frequentano vengono considerati lontani dalla riabilitazione sociale. Se le cose stanno così, perché non si vieta ai condannati per mafia di frequentarle?
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(La chiesa di Platì)

I PARENTI «Ha fatto il suo dovere di prete»; «lui accoglie tutti, come Gesù»; «è stato in Africa per tanto tempo, non è nel mondo per sapere queste cose, che ne può sapere lui dell’associazione mafiosa?». Sono le cugine di Giuseppe Barbaro “U cenni” – Pina, Elisa ed Elisabetta – a difendere il parroco e a spostare l’attenzione su un altro aspetto: le presunte colpe dello Stato, dell’altro Stato.
Da dentro un piccolo market, le tre donne spiegano la malattia del loro parente che ha lasciato quattro figli, i suoi problemi al cuore, le continue richieste di aiuto secondo loro non ascoltate. La detenzione quasi finita, la moglie che parte per fargli visita nel carcere di Torino proprio nel momento in cui lui viene trasferito a Vibo Valentia, dove morirà poche ore dopo. La telefonata (ritenuta brutale) alla figlia da parte dell’amministrazione penitenziaria: tuo padre è all’obitorio.
Giuseppe, dicono, aveva sbagliato e stava pagando (mentre parlano, a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro, arrivano due ragazzi in scooter: non dicono una parola ma con rapidi cenni alle donne controllano che all’interno del market sia tutto “tranquillo”); però era anche «una persona buona buona», un tipo «che aveva paura di tutto; che mafioso era?». Ma insomma, lo Stato, insistono, avrebbe dovuto curarlo, fargli scontare gli ultimi mesi di pena in una struttura sanitaria: invece si sarebbe limitato a «dargli una pillola». Infine è morto; e ora è tempo di lutto.
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IL NERO Il colore di Platì è il nero. Più degli sguardi diffidenti, dei chiodi ai muri per non far giocare i bambini a palla, più del vittimismo, più della strumentalizzazione della teoria dell’accerchiamento innalzata a giustificazione perenne, colpisce la mancanza di policromia per le strade. Tutte le donne indossano maglie nere: sono i segni dell’angoscia perenne di un paese a cavallo tra Aspromonte e tragedia, quasi fiero del suo isolamento e del suo autogoverno, fatto di regole proprie e non riconosciute, al di là dell’avamposto.
La tensione si sente ma potrebbe non esplodere. Invece esplode. Una macchina si ferma. Lo sguardo di chi guida è torvo, minaccioso. Le parole, pure: «Giornalisti… ve ne dovete andare. Vi faccio scomparire, quella telecamera va squagghiu (ve la squaglio)». Ripassa la donna in nero: «Malanova! Itavindi! (andate via)».
E allora sulla via del ritorno, lontano dalla Fortezza.

Pietro Bellantoni
p.bellantoni@corrierecal.it

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