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L’avvenire è nei piccoli centri

Un viaggio nei paesi abbandonati della Calabria. Una volta pieni di vita, di persone, di animali, questi borghi dell’entroterra e della montagna sono passati dal troppo pieno al vuoto, lentamente s…

Pubblicato il: 06/11/2016 – 8:51
L’avvenire è nei piccoli centri

Un viaggio nei paesi abbandonati della Calabria. Una volta pieni di vita, di persone, di animali, questi borghi dell’entroterra e della montagna sono passati dal troppo pieno al vuoto, lentamente si sono spopolati per migrazioni in un «altrove» anche molto lontano o per riempire la costa di paesi che stentano a trovare un’identità: «non più luoghi» sono stati sostituiti da «non ancora luoghi». E tuttavia c’è un moto di ritorno verso i paesi fantasma, che non è detto possa farli rinascere se non è accompagnato da un progetto concreto, da impegno civile e politico. Ma non basta; chi è partito e ritorna e chi è rimasto dovrebbero «prendersi cura» dei luoghi con uno sguardo nuovo, che sappia recuperare il passato e accogliere le istanze del moderno per proiettarli verso il futuro.

Pieno
Pieno. Questo è l’aggettivo che dice in me il paese dell’infanzia e della giovinezza. Il paese era pieno, denso, compatto, di uomini, donne e animali. Nei bassi ormai vuoti e cadenti si stipavano famiglie di dieci e più persone. C’era il pieno delle strade, delle campagne, delle processioni, delle feste, delle riunioni, dei comizi. Delle casupole adibite a scuola della mandrie che seguivamo in campagna. Il pieno delle voci, del raglio degli asini, del belato delle pecore, del vagabondare di gatti e di cani, e ancora il pieno dei giochi, degli ambulanti, della gente che tornava dai campi. Il pieno della miseria, dei bambini scalzi e con una fetta di pane nel palmo della mano, delle favole e dei pettegolezzi, degli abbracci e dei litigi.
Arrivò il pieno delle macchine che partivano con famiglie stipate e che piangevano come le persone che restavano. C’era il pieno di chi salutava e diceva arrivederci sapendo che mentiva. E il pieno nel mio paese di Toronto, dove c’era mio padre e c’erano i padri dei miei compagni. Quel pieno svuotava il paese e creava e fondava altri luoghi, grattacieli e città. Le case chiudevano ma si pensava al ritorno. La ruga era piena. Ed io abitavo un pieno di voci, di bestemmie e di preghiere. Adesso la via è piena di ricordi e di rimpianti. Un tempo si parlava ad alta voce perché i mille suoni e i rumori rendevano impossibile l’ascolto; adesso si urla nel silenzio perché nessuno ti ascolta. Sarebbero tornati un giorno i miei amici e i loro genitori. Noi partivamo per le università, eravamo in viaggio per le città del mondo. Qualcuno tornava con il sogno di cambiare tutto. Cambiamo il paese, dicevamo. Bisognava restare. Bisognava tornare. E chi non riusciva a farlo rinviava il ritorno. Tanto il paese aspetta, pensavamo. Il paese non aspettava. Mutava. Si svuotava. Non è più tornato nessuno. I miei compagni delle elementari e delle medie sono ancora in Canada. Ne vedo qualcuno, ma siamo diventati altri. Hanno ormai la faccia del padre come io ho la faccia di mio padre, dopo che per una vita abbiamo tentato di fuggire dal padre. Più sognavamo di fare vivere il paese e più il paese moriva. E partivamo e tornavamo. Smistavamo emigrati all’aeroporto e alle stazioni. E Toronto, che avevo immaginato come il prolungamento del mio paese, l’ho vista quando mio padre era già tornato da anni ed era ormai ammalato. Il mio interesse per i luoghi dell’abbandono, prima che antropologico e letterario, è personale, affettivo: è parte della mia biografia. Anche in queste note non è facile separare il discorso antropologico dalla memoria, dalla testimonianza e dal progetto. I miei riferimenti autobiografici (simili alle possibili autobiografie di quelli della mia generazione) hanno un senso e un significato più generale perché coincidono con la biografia dei paesi meridionali e delle comunità tradizionali di tutta Italia. Per meglio dire la mia autobiografia coincide paradossalmente con una progressiva morte dei luoghi antropologici del passato.

San Nicola da Crissa, fine anni ’20 (Archivio privato Antonio Galati)

0. San Nicola da Crissa fine anni Venti Novecento

Passaggio tra due civiltà
Per chi come me è nato e cresciuto tra gli anni Cinquanta e Sessanta e ha vissuto l’erosione e la fine dell’universo contadino tradizionale (dalla Calabria alle Langhe, dalla Sicilia al Veneto, dalla Basilicata al Friuli, dalle Puglie alla Lombardia) il passaggio non avviene tra due età o due mondi, ma tra due civiltà. La fine della civiltà contadina e l’avvento della modernità (sia intesi come caduta o rovina o come fine di antichi vincoli e di rapporti angusti e stretti) sono eventi unici, epocali, irripetibili. Ho vissuto la fine del paese-presepe, come sistema abitativo, produttivo, culturale, mentale, considerato ora come luogo pacificato, gradevole, desiderabile – un Eden – ora come luogo di arretratezza e isolamento, sgradevole e indesiderabile. Dopo decenni di esodo, di abbandono della montagna e della collina, di discesa sulle coste e di fuga verso le città industriali del Nord o all’estero, i paesi, le piccole comunità dell’interno, appaiono ormai marginali, residuali, morenti. L’abbandono e lo spopolamento sono il grande problema di tutte le aree interne dell’Italia. In dieci anni la Calabria ha perso 178.923 abitanti su una popolazione residente di appena 1.976.631 persone. Gli abitanti dei paesi interni si aggirano come ombre e fantasmi in attesa del peggio. Gli ultimi abitanti che resistono sono spaesati nei paesi, esuli in patria, stranieri a loro stessi. Apatici e increduli. Litigiosi e speranzosi. Rassegnati e testardi. Distratti e accorti. Indifferenti e vigili. Talvolta i paesi muoiono per scelte suicide della politica ma anche dei suoi ultimi abitanti. La terra che ha sopportato invasori e conquistatori, terremoti e frane, malaria e latifondo, baroni e criminali, corrotti e malfattori, adesso fugge da se stessa, non ha voce nemmeno per chiedere. Ha sopportato esodi di centinaia di migliaia di persone che hanno costruito tante Calabrie altrove e adesso si sta estinguendo e dissanguando.

Campagne di San Nicola da Crissa, anni ’50 (Archivio privato Antonio Galati)

2. Campagne di San Nicola Anni Cinquanta

Vuoto
Il «troppo pieno» oggi è diventato vuoto, vacante. Nei paesi dell’interno vengono, quasi quotidianamente, chiusi scuole, uffici postali, ospedali, presidii delle forze dell’ordine. E centri lungo la costa, di recente popolamento, si presentano con una zona vuota, disabitata, spesso in rovina. Quando muore una persona anziana non finisce solo una storia: chiudono le «storie», un’epoca, una casa, una famiglia. I vicoli e le rughe diventano degli angoli bui, territori vuoti anche all’interno di paesi abitati. I mesi invernali presentificano una sorta di rischio chiusura dell’abitato. I paesi in abbandono, con spazi deserti e vuoti, sono spesso senza centro, senza piazza, senza bar, senza rapporti e punti di riferimento. I doppi e i nuovi centri lungo le coste, spesso intasate, d’inverno appaiono morte, faticano a trovare un nuovo senso. La Calabria è una metafora dell’Italia dove i «non più luoghi» sono sostituiti da «non ancora luoghi», irriconoscibili ai suoi stessi abitanti. All’inizio degli anni Novanta avevo cominciato il mio viaggio nei paesi abbandonati della Calabria, del Sud e dell’Italia, per raccogliere memorie e possibili segni di vita, nel campo delle mie discipline che si muovevano in un consueto a volte sterile dibattito tra tradizione e modernità. Continuavo tenacemente a cercare la vita e le memorie proprio là dove sembrava trionfare la morte e soltanto i suoni della natura e degli animali. Mi muovevo in paesi abbandonati o in progressivo abbandono, nella Calabria dell’interno di cui pochi sembravano accorg
ersi, e dove gli altri scorgevano la fine tentavo di immaginare un’altra vita. Ero impegnato a cercare ciò che resta, ciò che resiste, è solido e parla proprio tra gli avanzi, gli scarti, i margini, le periferie inventate dalla modernità devastante e violenta. Non c’era alcuna indulgenza nostalgica per un bel tempo perduto e passato, ma nemmeno tanta furia devastatrice e ansia di correre verso nessuna meta e senza alcuna idea di dove andare e con chi e per fare cosa. Non immaginavo, allora, che i luoghi dell’abbandono, marginali, sarebbero diventati, oltre che relitti di memorie, anche la sede possibile per una vita nuova.

San Lorenzo

3 San Lorenzo 2016

Un luogo da riempire
E invece oggi il vuoto sembra costituire un luogo da riempire: un luogo che chiama, attrae, attira. In un quadro generale di desolazione e di spaesamento, il ritorno diventa nuovamente un tema: reale, sognato, mitizzato. Questa attenzione – che coinvolge in maniera diversa scrittori, giornalisti, fotografi, cineasti – spesso ubbidisce a una moda, risponde a interessi editoriali o dei media, a ricerca di esotico e di alternativo come era accaduto per il fenomeno della scoperta del folklore: una nuova rovinologia postmoderna. Sono narrazioni da decifrare e capire perché comunque rivelano un bisogno di altro e una ricerca di altrove che questa volta si trova a casa, al passato, nell’abbandono. E tuttavia sento di poter dire che uno sguardo esterno e colto, separato da un progetto concreto di rinascita, da impegno civile e politico, non contribuirà alla rinascita dei luoghi. Credo che siano le voci, le memorie, i racconti, le pratiche degli abitanti a restituire ai luoghi il proprio senso: vero, profondo, quasi rivoluzionario. Pratiche di resistenza, reinvenzione, corpo a corpo con i luoghi che disegnano una geo-poetica legata alla terra e una geo-antropologia dell’abbandono di cui pochi sembrano accorgersi. Ogni ipotesi di contrasto all’abbandono e alla desertificazione, di possibile ripopolamento di luoghi abbandonati e pieni di macerie, ha bisogno di nuove scelte politiche, di nuovi progetti a livello locale e generale. E tuttavia noi dobbiamo pensare cosa è possibile fare oggi, qui ed ora, anche da soli o in pochi. Quali sono le utopie minimaliste da compiere e in grado di innescare processi più vasti.
All’origine di ogni abbandono c’è una maledizione. Come all’origine di ogni fondazione c’è un evento prodigioso o miracoloso. La strada nuova magari è quella di trasformare la maledizione in benedizione. Immagino una più accorta antropologia dei paesi da cui possa nascere un progetto capace di oggettivare bellezza e valori, di farsi pietra ferma e insieme vento che porta semi in cerca di terra. C’è bisogno di un nuovo ascolto, di un nuovo modo di guardare, di adottare un nuovo vocabolario e dare un nuovo senso a parole antiche, di una diversa sensibilità per saper cogliere le mille facce del ritorno registrate in tutta Italia e che vedono come protagonisti ragazze e ragazzi, comunità in estinzione, emigrati che tornano e immigrati che arrivano, persone che resi- stono e non si rassegnano all’abbandono. Il fenomeno del ritorno nei luoghi dell’abbandono va inserito in quel vasto fenomeno di «ritorno» al locale spesso in opposizione al globale. Del resto l’antropologia, nel corso degli ultimi decenni del Novecento, supera l’assunto dell’altrove come oggetto esclusivo e come unica forma di «distanza» metodologicamente accettabile e si volge verso l’endotico, si fa critica culturale, attua quello che Marcus e Fisher definiscono «ritorno a casa» e «rimpatrio».

L’avvenire è nei piccoli centri
La popolazione residente nelle grandi città ha superato quella che vive nelle campagne, nei paesi, nei piccoli centri. Sono circa un miliardo e mezzo gli abitanti di slum, l’ecosistema del futuro. Sono in sovrappiù gli esclusi, gli scarti umani che vivono negli scarti materiali urbani: cartoni, teloni di plastica e, soprattutto, lamiere riciclate. Assistiamo a spostamenti quotidiani di interi popoli che bussano alla nostra porta, a esodi che nessun muro può fermare. Questi processi non sono affatto irrilevanti per il destino futuro dei paesi, delle campagne, delle città di provincia. L’affollamento delle metropoli genera una fuga di vari gruppi sociali e culturali da luoghi considerati non a dimensione umana. Previsioni inquietanti (quelle che si basano sull’effetto serra e sul progressivo riscaldamento del pianeta) parlano di una non lontana fuga di massa dalle città, dove non si troverebbe più cibo. Quasi dovunque, si registrano tentativi di abbandonare le megalopoli per cercare modelli di vita alternativi che spesso portano, sia pure in maniera non definitiva, nelle campagne, nei piccoli centri, nei paesi: giovani, intellettuali, scrittori, artisti immaginano e pensano che l’avvenire dell’umanità sia nei piccoli centri.
Non è il ritorno al vecchio paese, il ripristino improponibile del passato, ma la consapevolezza che le zone interne hanno risorse ambientali, paesaggistiche, culturali da offrire. Il paese potrebbe ripresentarsi come un corpo aperto, dinamico, capace di accogliere, in un periodo in cui la montagna non è più vista come luogo di arretratezza e nel momento in cui significativi strati di popolazione sono alla ricerca di altri luoghi, di «tipicità», di tradizioni locali che, pure inventate, allontanano dalla monotonia omologante delle metropoli. La montagna riprende il suo significato di ciò che resiste, di ciò che resta solido, ben piantato e, insieme, si alza verso l’alto. Bisogna superare il pregiudizio e la pigrizia, di guardare i centri interni dal basso verso l’alto e non dal loro interno.
Paesaggi, prodotti del luogo, monumenti e beni immateriali possono attrarre flussi turistici, innescare processi economici e dinamicità, mettere in moto tante iniziative locali. Il vuoto dei paesi potrebbe essere riempito da beni immateriali da offrire con una diversa logica dell’accoglienza e dell’ospitalità, più vicina a quella della tradizione che non a quella di una retorica postmoderna che mira soltanto a interessi personali e di gruppo, incapaci di creare comunità. Il cibo, le acque, il silenzio, la tranquillità, i tempi lenti sono beni comuni, a condizione di non svenderli e di promuoverli in maniera adeguata, senza retoriche identitarie.

Placanica

100.Placanica

Ogni ritorno è un nuovo inizio
Le feste, i pellegrinaggi, i riti, i ritorni che ho osservato, documentato, descritto negli ultimi anni nei paesi abbandonati sono emblematici delle grandi mutazioni spaziali e antropologiche, sociali e mentali, conosciuti dal paese e dal paesaggio calabrese. Tornano dai nuovi luoghi di residenza, dai paesi vicini, dall’estero, gli antichi abitanti, quasi per impedire la definitiva scomparsa del paese. L’antico luogo richiama e attrae. Le feste diventano il segno di una tenacia e di una resistenza che sorprendono quanti sono abituati a vedere i paesi vuoti durante i mesi invernali. L’abbandono si è trasformato in una sorta di risorsa identitaria, con innumerevoli implicazioni pratiche. Il paese abbandonato sembra non volersi rassegnare alla fine. Manda segnali. Consegna memorie. È un defunto che perturba i viventi. Il paese morto costituisce «rimorso» e senso di colpa degli abitanti dei «doppi», delle persone originarie del luogo e disperse nel mondo.
Una doppia onda di nostalgia avvolge coloro che sono nati in comunità ormai abbandonate: verso l’antico e verso il nuovo o verso un altro luogo. I non più luoghi talvolta rivelano la volontà di cercare e acquistare un nuovo senso, inedite forme di «appaesamento» che resistono all’omologazion
e dominante. Nei mille luoghi di passaggio, di frontiera, con case incompiute, spesso senza chiesa, cimitero, piazza, centri di aggregazione, si svolge un lavorio di appaesamento giocato su un rapporto di odio-amore, distanza-vicinanza con il paese uno, si attua un faticoso tentativo di collegare mondi non comunicanti. Le schegge dell’antico paese presepe frantumato, smembrato, esploso hanno costruito nuovi mondi. Non si torna mai nei luoghi, una volta che li abbiamo lasciati, perduti e abbandonati. Ogni ritorno è un nuovo inizio. Ogni frammento della casa e del corpo del passato potrebbe essere adottato, salvato, adoperato per nuove costruzioni. La memoria, l’identità, la nostalgia, le tradizioni hanno un senso soltanto se rivolte al futuro. Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il «villaggio», le origini, una diversità da recuperare.
Le stesse rovine potrebbero essere trasformate in risorse identitarie, riconvertite in un grande e globale piano di ricostruzione e di riorganizzazione del territorio, di risanamento del paesaggio. Nessuna civiltà come la nostra ha avuto la capacità di prefigurare, attendere, produrre, rovine e nello stesso tempo il senso e la consapevolezza delle rovine, la capacità di valorizzarle, tutelarle, decifrarle. Le rovine sono memorie materiali, reliquie, segno di ciò che resta e di ciò che dura. Grandi e piccole rovine, sepolte e dimenticate, del passato lontano squadernano per frammenti una storia complessa e controversa, sono le tessere di un mosaico che vanno raccolte, lette e ricomposte.

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Restare è la forma estrema del viaggiare
I nuovi luoghi forse sorgeranno dall’ostinato restare, dai più attenti ritorni, da sguardi più lucidi. Restare richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Restare non significa «stare fermi», attendere muti e rassegnati. Significa sentirsi sempre in atteggiamento di attesa e di ricerca; essere pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e ad accogliere, a condividere i luoghi.
Chi resta sperimenta le nuove dinamiche culturali; vede gente partire e analizza le nuove modalità del distacco; vede gente arrivare con un nuovo carico di problematicità e interpreta, di volta in volta, ibridazioni, conflitti, elaborazioni di nuove dinamiche identitarie. Il nostro territorio diventa territorio di frontiera, interpreta il disagio, la sofferenza, l’inquietudine, il «che ci faccio qui?», il rimorso, lo shock culturale di chi si sente appartenere a una tradizione immutabile mentre, a tutti gli effetti, è preso nelle dinamiche della globalizzazione. L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della «restanza» – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare.
Rimasti e partiti non possono fare a meno gli uni degli altri, anche se il loro legame non è sempre pacificato. Rimasti e partiti, senza enfasi e senza rancori, dovrebbero percepirsi nelle loro somiglianze e nelle loro diversità, e cominciare a «riguardare» i luoghi che li accomunano. Riguardare i luoghi significa guardarli altrimenti, con la levità di chi non vuole farsi soffocare dal passato. Uscire dal localismo, dagli spazi ristretti, correre il rischio dell’alterità. Riguardare significa anche intercettare sguardi di cui non ci siamo accorti prima, avvolgere e coinvolgere altri occhi. Tessere una fitta rete di orizzonti che scardini il silenzio, che stimoli i forestieri, che turbi la politica, che la chiami a sé. Soprattutto, riguardare significa «avere cura». Cura è una parola densa, oscillante tra sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, fino a indicare l’amore e la pena amorosa. Cura è preoccupazione, inquietudine. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica e par- la di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali, di un’attenzione che si espande alla natura e alla terra, oltre che alle persone. Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o imbellettare. Saper fare i conti con il dolore.
Serve un impegno concreto. Restare, riguardare, avere cura. Cominciando con l’attraversare quei luoghi che sembrano condannati a un’inesorabile marginalità. Con passo lento, in solitaria, se serve, per scoprire come, partendo dal margine, si possa trasmettere vitalità al mondo.

Vito Teti

(Testo pubblicato su Testimonianze – L’Italia dei piccoli centri, volume monografico a cura di Fabio Dei, Severino Saccardi, Simone Siliani e Giacomo Trentanovi)

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