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Alcune (buone) ragioni per votare No al referendum

Ragioni sia di metodo che di contenuto spingono ad assumere che la revisione costituzionale italiana (ora in fase di referendum confermativo) pone seri problemi di disarmonia costituzionale e di ir…

Pubblicato il: 08/11/2016 – 14:00
Alcune (buone) ragioni per votare No al referendum

Ragioni sia di metodo che di contenuto spingono ad assumere che la revisione costituzionale italiana (ora in fase di referendum confermativo) pone seri problemi di disarmonia costituzionale e di irragionevolezza individuabili nello scarto fra obiettivi dichiarati (dai legislatori di riforma) ed effettiva idoneità delle soluzioni previste a tali obiettivi; in alcuni casi, si pongono veri e propri dubbi di legittimità circa la conformità costituzionale di talune delle scelte accolte nel testo di revisione (articolo 57.2). L’eterogeneità del quesito referendario (mentre scriviamo oggetto di ricorso alla Consulta) costituisce un ulteriore profilo di problematicità di natura eminentemente processuale.
In accordo con un’autorevole dottrina (A. Pace), soprattutto per alcuni suoi profili, la revisione costituzionale costituisce violazione di principi consolidati della “democrazia costituzionale”, che una risalente giurisprudenza costituzionale (sentenza 1146/1988) ha qualificato come “supremi”, a partire dal principio della sovranità popolare (articolo 1.2 Costituzione), da quello dell’eguaglianza e della ragionevolezza (articolo 3 Costituzione) a quello democratico (articolo 48 Costituzione).
Tale violazione (che potrebbe determinare il ricorso alla Corte costituzionale sul testo di revisione costituzionale qualora le ragioni della conferma del corpo referendario dovessero prevalere sulle ragioni di opposizione alla revisione) evidenzia, al contempo, come il testo di revisione costituzionale si accompagni con la soppressione di quei”pesi” e “contrappesi” che la teoria costituzionale, fin dalle sue origini liberal-democratiche, ha assunto come necessari e indefettibili nel quadro di una “democrazia costituzionale”.
Oltre a tali dubbi (di ordine tecnico-giuridico e di teoria costituzionale), le principali problematiche di dubbiosità hanno origine nel cosiddetto “combinato disposto” costituito dalla vigenza della nuova legge elettorale iper-maggioritaria (legge n. 52/2015) e delle nuove previsioni accolto nel testo di revisione, soprattutto quelle relative al (preteso ma inesistente) superamento del bicameralismo perfetto ora vigente e della (sempre pretesa) semplificazione del procedimento legislativo.
Quanto al primo dei profili evocati, si tratta di prospettive obiettivamente inquietanti quando si rifletta sul tasso di accentramento di potere nelle mani del governo (ma soprattutto del presidente del Consiglio, segretario e leader del partito che vince le elezioni) e, di conseguenza, sulle possibili alterazioni del principio costituzionale di separazione dei poteri con i conseguenti effetti di sbilanciamento fra funzione rappresentativa e funzione di governo. Tali due fondamentali funzioni della democrazia rappresentativa (moderna e contemporanea) erano state nuovamente richiamate e sottolineate dalla Corte costituzionale al momento di adottare la sentenza di illegittimità costituzionale (parziale) della previgente legge elettorale n. 270/2005 (sentenza costituzionale 1/2014, considerato in diritto 3.1). Per la Corte costituzionale, infatti, se gli obiettivi di agevolare la formazione di un’adeguata maggioranza parlamentare e di garantire la stabilità del governo del Paese risultano costituzionalmente legittimi, rendendo in tal modo più rapido il processo decisionale, non può in ogni caso accordarsi copertura costituzionale «a quelle previsioni della legge … che producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Costituzione» (sentenza costituzionale n. 1/2014, consid. diritto 3.1).
I riflessi materiali della vigente legge elettorale sull’assetto e gli equilibri dei poteri costituzionali in termini di legittimazione democratica (fattualmente “quasi diretta”) del capo del governo raggiungono una intensità mai raggiunta in precedenza, né in epoca fascista (legge Acerbo, n. 2444 del 1923), né in quella repubblicana (cd “legge truffa”, proposta dalla Dc nel 1953).
Un simile quadro si accompagna con la riscrittura materiale – in favore dell’esecutivo (e al suo interno del presidente del Consiglio) – di rilevanti regole costituzionali di garanzia, con la compressione (formale e sostanziale) del procedimento legislativo da parte (e in favore) del governo, con la svalutazione degli istituti partecipativi e referendari, ed infine con la riscrittura dell’insieme (sostanziale e procedurale) dei rapporti fra Stato e regioni, accompagnata dalla profonda rivisitazione dell’allocazione delle relative competenze alla luce della soppressione delle competenze concorrenti delle regioni nonchè alla luce della introduzione di una clausola di sovranità statale in ogni momento utilizzabile dal governo nei confronti della legislazione regionale.
Il nuovo scenario disegnato dal “combinato disposto” della revisione costituzionale e della riforma elettorale muove, così, nella direzione di un nuovo indirizzo costituzionale (ma, evidentemente, anche di un nuovo progetto politico e culturale per il Paese) fondato sulla svalutazione del Parlamento, sul rafforzamento (debordante) e sulla legittimazione (quasi diretta) del capo dell’esecutivo, sulla esasperazione del leaderismo e della personalizzazione della politica. La critica principale, così, risiede nei gravi effetti di sbilanciamento degli equilibri costituzionali, che si accompagnano con una evidente umiliazione del Parlamento a tutto favore del governo e al suo interno con il rafforzamento del Premier che diviene “uomo solo al comando”. Ciò in ragione della vera e propria sua elezione quasi-diretta, sulla base di quanto previsto dall’Italicum. Le due leggi in campo (quella di revisione e la legge elettorale), da leggersi in modo necessariamente congiunto, assicurano al leader del partito che diviene presidente del Consiglio, alla guida di una maggioranza artificiosamente creata dalla legislazione elettorale, una influenza determinante nella “nomina” (attraverso i consigli regionali) dei componenti del Senato nel Parlamento e più in generale nella formazione (e dunque nel funzionamento pro domo sua) degli organi di garanzia e della stessa composizione del Senato.
Scenari questi in contrasto con le risalenti prassi parlamentari della democrazia del Paese da un secolo e mezzo a questa parte (quando si escluda la fase del regime fascista). Una simile tendenza all’investitura (quasi diretta) dell’esecutivo, invero, si sta configurando in modo graduale e senza proposte di revisione formale delle disposizioni costituzionali in tema di governo, ricorrendo alle technicalities iper-maggioritari(stich)e rese disponibili dai meccanismi della nuova legge elettorale, nella quale il voto al partito del leader che vince le elezioni si carica di una investitura democratica “quasi-diretta” del capo del governo con gli effetti di “traino” che una simile investitura democratica diretta ha, in modo inevitabile, sul funzionamento concreto dell’insieme dei poteri costituzionali.
Saremmo in presenza, cioè, di una modalità nella quale è “come se” gli elettori scegliessero direttamente e in modo contestuale chi vince le elezioni e chi sarà chiamato a guidare il governo; una modalità che “by-passa” materialmente le funzioni e le connese garanzie disponibili nella vigente forma di governo parlamentare, con particolare riguardo al ruolo (di garanzia e di equilibrio) in essa svolto dal presidente della Repubblica, disegna scenari di squilibrio nel rapporto Parlamento/governo e assenza di veri e propri contropoteri, transitati ora sulla base di questa riforma nelle mani del partito che vince le elezioni, “elegge direttamente” il premier, dispone di un premio in termini di seggi parlamentari che lo portano a disporre di una maggioranza parlamentare ampia e stabile
(del 54%) e che, da tali posizioni politiche, può influenzare in modo effettuale (nel linguaggio dell’uomo della strada, ‘nominare’) in modo significativo la formazione del Senato.
Se queste condizioni risultassero tutte nella disponibilità del leader politico, segretario del partito e capo del governo, senza un rafforzamento dei contropoteri in capo al Parlamento e agli organi di garanzia (la cui elezione/nomina non può assolutamente essere oggetto di una influenzabilità da parte del partito maggioritario che è tale sulla base del risultato elettorale), i rischi di tendenze demagogiche nella gestione del potere da parte dell’esecutivo sarebbero più che evidenti.
Il tutto aggravato da una grave crisi del sistema politico-partitico e dalla residualità (in realtà, dalla inesistenza), all’interno di questi partiti “sopravvissuti alla crisi” del rispetto della regola costituzionale della “democrazia interna”.
Senza potersi soffermare sulle molte ragioni di criticità dovute a singole disposizioni del testo novellato, in conclusione, per chi scrive, le ragioni che portano ad auspicare che il corpo referendario respinga un simile indirizzo di revisione costituzionale sono ascrivibili a due fondamentali, principali, ragioni cui si è fatto cenno in precedenza:
a) la forte dubbiosità sulla legittimità costituzionale delle nuove previsioni sulla composizione del Senato e soprattutto sulle forme di elezione dei senatori;
b) la manomissione dell’equilibrio nei poteri costituzionali e nel funzionamento della “democrazia costituzionale” determinata fattualmente dal mix costituito dalla riforma costituzionale e dalla riforma elettorale. Ne consegue che l’eventuale conferma referendaria di un simile indirizzo politico (costituzionale e legislativo) dà vita ad una nuova forma di governo parlamentare priva dei “contro-poteri”, che sarebbero assolutamente necessari in una democrazia costituzionale. Ciò, peraltro, come potrebbero bene argomentare politologi e storici, appare aggiuntivamente problematico in un tempo piuttosto difficile per la democrazia (parlamentare e presidenziale) nella quale vanno spesso emergendo populismi (di varia declinazione politica e culturale) insofferenti alle regole del pluralismo e alla ricerca di capi e di leader!

*Costituzionalista

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