REGGIO CALABRIA I lavoratori stavano meglio quando a guidare le loro aziende c’era la ‘ndrangheta. L’arrivo dello Stato ha invece determinato lo stop agli stipendi, che ha inevitabilmente causato i licenziamenti per giusta causa senza, però, il saldo dei relativi Tfr. È paradossale la storia degli ex dipendenti delle società reggine Semac srl e Ditta Fontana Giuseppe Carmelo, entrambe sequestrate nel 2013 e poi confiscate nel 2016. Sono due delle imprese sottratte al clan Fontana, lo storico cartello della periferia nord di Reggio i cui capi sono stati di recente condannati a pene durissime nell’ambito del processo Leonia, che ha svelato le infiltrazioni della cosca nella società che gestiva la raccolta dei rifiuti per conto del Comune.
I Fontana avevano però interessi anche nei settori della riparazione e rivendita di autoveicoli e del commercio di carburanti, ambiti nei quali operavano le due società confiscate. L’aspetto surreale è proprio questo: fino a quando al timone c’erano i presunti uomini del clan, i lavoratori percepivano regolarmente lo stipendio. Dopo, con la nomina dei curatori nominati dal Tribunale di Reggio, le cose si sono complicate maledettamente. Colpa della burocrazia statale e di procedure ancora non perfettamente oliate che, in alcuni casi, rendono complicato l’accesso alle tutele per i dipendenti di società sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Il risultato è che oggi circa 32 persone vantano un credito complessivo di almeno 75mila euro e non possono nemmeno accedere al Fondo di garanzia dell’Inps, lo speciale strumento previdenziale che eroga al lavoratore il Tfr e gli ultimi tre stipendi nel caso in cui non siano stati saldati dal datore di lavoro. Tra l’altro, il loro credito è stato riconosciuto dal ministero del Lavoro attraverso le diffide “accertative” emesse tra il 2014 e il 2015 dalla Direzione territoriale di Reggio.
GLI INTOPPI BUROCRATICI «Con l’avvento dello Stato, prima attraverso la nomina degli amministratori giudiziari e poi con il subentro dell’Agenzia dei beni confiscati, le cose sono cambiate», spiega Fulvio Catalano, uno dei legali degli ex dipendenti. «Non solo si è assistito a un declino progressivo delle unità produttive di riferimento, tra le altre cose condotte alla chiusura, ma la cosa più grave è che i lavoratori occupati hanno lavorato per diversi mesi senza ricevere le retribuzioni spettanti fino all’inesorabile cessazione del rapporto di lavoro».
Il Fondo di garanzia sembrava allora l’unica arma a disposizione, ma anche in questo caso la burocrazia ha riservato amare sorprese per i 32 ex dipendenti. L’Inps ha insomma risposto picche, in quanto i provvedimenti di sequestro e confisca non integrerebbero il requisito dell’insolvenza delle aziende, che è il presupposto per l’intervento del Fdg. Una spiegazione che non ha convinto l’avvocato Catalano, che ha infine presentato un esposto alla Prefettura di Reggio per chiedere un coordinamento tra l’ufficio del governo, l’Inps e l’Agenzia dei beni confiscati al fine di definire una vicenda che sta «ledendo gravemente diritti fondamentali e costituzionali delle persone coinvolte».
L’INTERVENTO DELL’AGENZIA La stessa Anbsc, lo scorso 11 novembre, ha chiesto alla Direzione provinciale dell’Inps di Reggio di «comunicare le motivazioni per le quali non si ritiene di dover ammettere al Fondo di garanzia i dipendenti per l’attività lavorativa già svolta presso le Semac srl e la ditta individuale Fontana Giuseppe Carmelo, oggetto di confisca». L’Agenzia dei beni confiscati, inoltre, ha ricordato all’istituto di previdenza una recente pronuncia della Corte costituzionale, con la quale viene riconosciuta la possibilità di accedere al Fdg anche in caso di società sottoposte a confisca. «In simili evenienza – recita la sentenza 94 del 2015 –, il lavoratore perde, in pratica, ogni prospettiva di ottenere il pagamento dei propri crediti tanto dal debitore (che non ha più mezzi), quanto dallo Stato, cui sono devoluti i beni confiscati: sicché la sua tutela resta affidata al solo eventuale intervento sostitutivo del Fondo di garanzia istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale, subordinato, peraltro, a particolari presupposti e circoscritto, comunque, a una limitata porzione dei crediti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato».
La decisione dell’Inps, secondo Catalano, è quindi «non convincente e inspiegabile», perché «non solo non esiste alcuna norma che vieti l’applicazione dello strumento di garanzia ai lavoratori già dipendenti delle aziende confiscate, ma anche perché si crea una grave discriminazione tra lavoratori – chi ha l’azienda insolvente ma non confiscata viene comunque pagato –, ledendo i diritti costituzionali posti a presidio della libertà e uguaglianza sostanziale dei lavoratori stessi».
Senza contare che il cortocircuito burocratico potrebbe avere un altro, nefasto, effetto: instillare l’idea che la ‘ndrangheta tuteli i lavoratori. A differenza dello Stato.
Pietro Bellantoni
p.bellantoni@corrierecal.it
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