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Teatro, sold out a Cosenza per “Terroni” di D’Alessandro

COSENZA È vicina al sold out la prevendita di Terroni, trasposizione teatrale del libro di Pino Aprile a cura dell’attore e regista Roberto D’Alessandro, che ne è anche interprete, in programma il …

Pubblicato il: 16/11/2016 – 11:06
Teatro, sold out a Cosenza per “Terroni” di D’Alessandro

COSENZA È vicina al sold out la prevendita di Terroni, trasposizione teatrale del libro di Pino Aprile a cura dell’attore e regista Roberto D’Alessandro, che ne è anche interprete, in programma il 30 novembre al Teatro Rendano di Cosenza. D’Alessandro, calabrese d’origine ma romano d’adozione, porta in scena uno spettacolo dalla forte carica emotiva, nel quale il pubblico del Meridione d’Italia potrà facilmente rispecchiarsi, ma non senza provare un pizzico di rabbia per un’Unità di fatto mai avvenuta ed una, nemmeno tanto velata, forma di discriminazione che ancora oggi si perpetra nei confronti dei cosiddetti “terroni”. Una presunta inferiorità socio-culturale aggravata dalle politiche dei governi che hanno da sempre riservato investimenti ordinari e cospicui nei confronti delle regioni del Nord, lasciando al Sud soltanto le briciole e poco altro. Roberto D’Alessandro, dopo aver collezionato una lunga serie di importanti esperienze teatrali ed essersi dedicato anche a fiction, cinema e tv, e dopo aver portato Terroni in giro per l’Italia, è di nuovo pronto per tornare a recitare “a casa sua”, davanti a un pubblico fatto, tra gli altri, anche di compagni di scuola di un tempo, amici, parenti. E non nasconde l’emozione che soltanto un palco così familiare può dare.

Come nasce l’idea di abbracciare il progetto teatrale Terroni?
«Stavo preparando un lavoro su Garibaldi, quando mi imbattei nella lettura di Terroni di Pino Aprile. Per me fu come un pugno nello stomaco: fui subito colpito da questo pamphlet unico nel suo genere, così contattai l’autore per chiedergli se potevo mettere in scena il testo, e lui mi diede il suo assenso. Debuttai al Teatro Quirino di Roma il 15 marzo 2011 accompagnato dalle musiche dell’album omonimo di Mimmo Cavallo, successivamente portai in scena lo spettacolo con brani di Bennato, Modugno e altri cantautori della tradizione meridionalista (mentre il 30 novembre al Teatro Rendano di Cosenza sarò insieme ai “CantannuCuntu” di Acri, che eseguiranno anche alcuni pezzi propri). La cosa singolare è che proprio il 17 marzo 1861 venne dichiarata l’annessione del Regno delle due Sicilie allo Stato sabaudo, che è cosa ben diversa dall’Unità d’Italia che, di fatto, non si è mai verificata, perché siamo sempre stati un popolo di coloni. Oggi, però, qualcosa si muove nelle coscienze della gente del Sud, c’è una nuova consapevolezza della propria identità di meridionali: penso all’emancipazione della Campania ad opera di Luigi De Magistris, all’attenzione che a questo tema dedica costantemente il sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, ma potrei fare anche tanti altri esempi».

C’è qualcosa di diverso tra il portare una pièce, specie una come Terroni, in giro per l’Italia, e rappresentarla invece “a casa propria”?
«C’è qualcosa di emozionalmente diverso. Il fatto che la prevendita del mio spettacolo al Rendano – tra l’altro in un mercoledì sera, e fuori dal cartellone di prosa allestito per la stagione – sia già quasi del tutto esaurita, la dice lunga sulla sensibilità del pubblico calabrese verso il tema. Registro questo dato con immenso piacere. Eppure, devo ammettere che l’atteggiamento del pubblico meridionale è paragonabile a quello di un pugile che riceve un colpo sul ring e rimane intontito senza riuscire a reagire; specialmente i meridionali trapiantati al Nord, che vivono quotidianamente questa forma di razzismo sulla propria pelle, rispondono quasi con rabbia. Le racconto un aneddoto: al termine della rappresentazione, proprio nel capoluogo lombardo, di Milano non esiste, tratto dal libro di Dante Maffia – a mio avviso uno dei più illustri poeti viventi del Meridione –una signora si alzò dalla platea gridando: “Sono trent’anni che mi trattate male!”. D’altro canto, non è nemmeno possibile biasimare più di tanto i settentrionali, che negli anni si sono visti invadere da frotte di persone che ne hanno influenzato in modo pervasivo usi, costumi, tradizioni».

Quanto si sente “terrone”?
«Sono terrone al 100%. Vivo dal ’90 a Roma, per cui, essendo nato nel 1966, ho trascorso più della metà della mia vita nella capitale, ed anche la mia cultura e la mia formazione teatrale sono prevalentemente romane: ho studiato presso la Scuola di Teatro di Gigi Proietti, successivamente ho fondato insieme ad altri attori la compagnia di cabaret I Picari. Sono e mi sento molto romano, ma le mie radici sono calabresi, e sono belle. Se penso al teatro, poi, penso al Rendano: quello per me è “il teatro”».

Passiamo al teatro-canzone. Da dove le proviene questa vocazione e come è riuscito a trasporre questa forma nelle scene di Terroni?
«Giorgio Gaber è il padre indiscusso del teatro- canzone, che fondò negli anni ’70 mettendo insieme le sue canzoni e i suoi soliloqui per raccontare pensieri. La prima espressione che mi è venuta in mente lavorando alla sceneggiatura di Terroni è stata per l’appunto questa, sia al fine di alleggerire i monologhi e sia perché si tratta di una formula particolarmente felice di esprimere pensieri; si può dire che io abbia preso in prestito il contenitore usato da Gaber per adattarlo alle mie esigenze, cambiandone il contenuto. Così come nella mia personale variante del testo della canzone Qualcuno era comunista, che ho trasformato in Qualcuno era meridionalista. Sarebbe curioso sapere cosa direbbe il signor G dopo aver visto i miei spettacoli».

Oltre ad essere attore, regista e sceneggiatore, è noto il suo attivismo a favore del comitato No Lombroso, che si batte per la rimozione ufficiale delle teorie criminologiche di Cesare Lombroso dai libri di testo, la soppressione delle commemorazioni odonomastiche e museali a suo nome e la chiusura dell’omonimo Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino.
«Del comitato No Lombroso fanno parte diverse personalità di spicco del mondo dell’arte, della cultura e dell’università, nonché enti, associazioni ed anche diversi comuni, tra cui Motta Santa Lucia da cui proviene il cranio del calabrese Giuseppe Villella, esposto proprio all’interno del Museo insieme ad altri numerosi resti umani di briganti meridionali. Tale macabra operazione rientra nella più vasta propaganda di discredito verso gli abitanti del Sud Italia, a favore di una presunta teoria della razza che prende le mosse dal libello di Lombroso per dimostrare che la forma del cranio di Villella, analogamente a quella dei suoi conterranei, ricondurrebbe al prototipo del cosiddetto “criminale nato”. Io ritengo assurdo il fatto che questo obbrobrio, che si vorrebbe spacciare per museo, possa essere ancora oggi aperto: esporre dei resti umani, così come in ogni altra parte del mondo, è illegale. Per questo motivo, quando mi è stato chiesto di diventare testimonial del comitato, ho subito accettato».

D’Alessandro, lei crede che il nostro paese potrà mai essere realmente unito?
«Se esistono zone molto ricche, è perché ce ne sono altre altrettanto povere. L’equità non deve riguardare soltanto l’Occidente, ma una vera perequazione dovrebbeassumere una dimensione planetaria. Non posso dire se mai ci sarà un’unità reale tra Nord e Sud, quello che auspico per intanto è un ritorno alle province, alle regioni; io sono a favore delle città-stato, ovvero delle autonomie locali, della difesa del territorio. Ma non ci giurerei, visto questo voler mettere mano a tutti i costi alla Costituzione…».

Quando la vedremo nuovamente in scena da queste parti?
«Non riesco ancora a dirlo con precisione. Al momento, sto costituendo insieme ad altri amici artisti l’Associazione Attori calabresi nel Mondo, e stiamo portando in giro la rassegna comica “La notte dei calabresi viventi…a Roma”. Spero di poterla riproporre al più presto anche lì da voi».

Chiara Fazio
redazione@corrierecal.it

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