MENDICINO Due diversi Centri di accoglienza straordinari nello stesso Comune, due situazioni completamenti differenti. Da un lato vi sono migranti trattati dignitosamente, assistiti anche da un punto di vista sanitario, che seguono corsi di lingua e che sono stati iscritti ai centri provinciali per l’impiego. Dall’altro ci sono persone al freddo, senza assistenza, con abiti leggeri e in ciabatte nonostante l’arrivo dell’inverno, e senza un soldo perché non ricevono i pocket money loro destinati. Sono due diverse realtà dell’accoglienza registrate dagli attivisti della campagna LasciateCIEntrare, la cui delegazione è costituita da Emilia Corea dell’associazione La Kasbah, e dagli attivisti Luca Mannarino, Maurizio Alfano, Luana Ammendola.
BUONE PRATICHE DI ACCOGLIENZA «Lo scorso primo ottobre facciamo visita a due Centri di accoglienza straordinari ubicati nel comune di Mendicino – scrivono gli attivisti –. Il primo Cas, denominato “Rosario 2”, come riportato sulla targhetta dei citofoni degli appartamenti, è gestito dall’associazione EuroForm e dall’associazione culturale Metamorfosi. Il centro è dislocato su due palazzi adiacenti, al centro del paese. Tre appartamenti al primo e quarto piano del primo palazzo, e due appartamenti nel secondo. I ragazzi ospiti del primo palazzo sono 15, 5 per ogni appartamento. Provengono da Nigeria (10), Gambia (2), Guinea Conakry (2), Burkina Faso (1). Negli appartamenti del secondo palazzo vivono, invece, sei persone.
All’interno degli appartamenti non c’è nessun operatore, per cui decidiamo di fermarci a chiacchierare con gli ospiti sul pianerottolo dei due appartamenti contigui. I ragazzi ci descrivono l’appartamento, parlando di due camere da letto da tre e due posti, cucinino e bagno. Ricevono ogni mese il pocket money giornaliero. Seguono un corso di informatica al mattino e un corso di lingua italiana nel pomeriggio, presso la sede dell’associazione EuroForm a Rende. Tutti hanno fatto richiesta d’asilo e attendono la risposta da parte della commissione territoriale. Il cibo viene preparato fuori dalla struttura e servito a pranzo e cena, mentre la colazione viene preparata dagli ospiti nelle cucine degli appartamenti. Non tutti sono in possesso della tessera sanitaria, ma tutti hanno fatto i controlli medici previsti. Nell’atrio del primo palazzo in cui sono ospitati i ragazzi, incontriamo una signora che si lamenta della “concentrazione” in una ristretta area di 21 stranieri. Racconta di aver parlato con il sindaco del comune per chiedere un equa dislocazione e riferisce che neanche il sindaco fosse a conoscenza dell’apertura del Cas. È la solita logica degli affidamenti diretti da parte della Prefettura, nell’ottica di una continua emergenza che non prevede, dunque, una partecipazione del territorio. Ciò determina la mancata condivisione di un’esperienza di accoglienza, interazione e conoscenza con la comunità locale, anche in presenza di possibili esperienze “virtuose”, che dovrebbe essere consueta per le popolazioni che accolgono. A distanza di un mese ci rechiamo presso la sede di EuroForm per confrontarci, così come è nostra consuetudine, con il gestore del centro. Ci intratteniamo a parlare con il coordinatore, Ilario del Sardo, che – secondo quanto ci riferisce – è anche il mediatore del Cas di Mendicino. Ci spiega il motivo per cui non è stata fatta l’iscrizione al servizio sanitario per tutti gli ospiti: un ritardo derivante dalle lungaggini burocratiche relative al rilascio del permesso di soggiorno. Ci racconta dell’intenzione da parte dei gestori di aprire un centro di aggregazione per i migranti nel comune di Mendicino al fine di favorire l’integrazione sul territorio. Ci riferisce, inoltre, della consuetudine di iscrivere i migranti al centro per l’impiego della provincia di Cosenza, prassi unica all’interno dell’universo dei Cas. Per quanto riguarda l’inserimento di tipo lavorativo, inoltre, ci racconta che si sta cercando di dare vita a una ditta di catering etnico, gestita direttamente dai migranti: in tal modo, ci dice, si cerca di venire incontro alle loro esigenze di tipo culinario e si prova a creare opportunità di lavoro per i migranti, alla fine del percorso di accoglienza. Ci racconta di aver letto e studiato il manuale operativo dello Sprar e di cercare di attivare tutte le procedure e i servizi in esso descritte, così come ogni centro di accoglienza straordinaria dovrebbe fare (in ottemperanza alla Circolare del Min. Int. del 8/01/2014 e al Capitolato generale d’appalto approvato con D.M. del 21/11/2008). Quanto da noi rilevato nel corso della visita al suddetto centro di accoglienza e del colloquio con il coordinatore ci porta a considerare il centro di accoglienza straordinaria gestito da EuroForm come un modello di buona accoglienza nella provincia di Cosenza, finora l’unico tra quelli fino a questo momento monitorati dai referenti territoriali della campagna, insieme a quello di Longobardi. Inoltre, la decisione di accogliere i migranti all’interno di singoli appartamenti piuttosto che all’interno di un unico centro di accoglienza, rappresenta un ottimo esempio di rispetto delle esigenze abitative dei richiedenti asilo, troppo spesso ammassati all’interno di strutture di infimo ordine».
AL FREDDO E SENZA SERVIZI «Situazione completamente diversa è quella che si palesa ai nostri occhi quando nel corso della stessa mattinata ci rechiamo fuori dal centro abitato dove, in Via Santa Maria, sempre nel territorio di Mendicino, è stato aperto un altro Cas, gestito dalla “Tre Effe” di Campana, in provincia di Cosenza: secondo quanto ci viene riferito dal coordinatore del centro, Ahmed Berraou, una cooperativa sociale dedita al catering e alla ristorazione, e improvvisamente riscopertasi votata all’accoglienza. Appena arrivati, il responsabile e gli operatori ci accolgono e si rendono disponibili a farci visitare il centro e a farci parlare con gli ospiti. Il centro è stato aperto da oltre tre mesi e accoglie circa 23 persone provenienti da Costa D’Avorio, Guinea Conakry, Nigeria, Senegal, Liberia. Il Cas è dislocato su due livelli in uno stabile che appare strutturalmente nuovo. All’interno ci sono camere da letto, da tre e due posti, e servizi igienici. Notiamo, però, che alcuni materassi sono senza lenzuola né coperte. E’ stata creata una sala per la preghiera ed è da poco presente una rete wi-fi. Il responsabile ci dice che sono presenti un coordinatore, un mediatore, una pedagogista (che funge da psicologa), un operatore socio-sanitario, un operatore che impartisce lezioni di lingua italiana ogni mattina e un operatore notturno. Come al solito, l’ottimo scenario prefigurato dal coordinatore, viene ribaltato dal racconto dei ragazzi ospiti del centro. Nessuno è ancora andato in commissione in quanto nessuno di loro ha ancora compilato il modello C3 per la richiesta d’asilo. Nessuno ha la tessera sanitaria e tutti si lamentano perché non vengono loro consegnate le medicine in caso di necessità. Ci comunicano che, da quando sono nel centro, non hanno usufruito di visite mediche. Il pranzo e la cena vengono preparati fuori dalla struttura, ma la qualità è scadente. La colazione viene preparata all’interno della struttura, e consiste in un solo bicchiere di latte. Non vengono loro forniti vestiti e si lamentano per il freddo della notte, mentre l’acqua calda, ci dicono, è arrivata solo il giorno prima. Riferiscono di aver chiesto più volte delle coperte, ma non sono state loro consegnate. Ancora non hanno ricevuto il pocket money dovuto. Si lamentano perché non vengono loro forniti i prodotti di base per l’igiene personale. Il tutto ci viene riferito davanti agli operatori, i quali cercano di minimizzare le rivendicazioni da parte dei migranti, additando alcuni di loro come gli agitatori del gruppo. Gli operatori, inoltre, ci riferiscono che la struttura – al momento dell’apertura del Centro – non era ancora stata dichiarata agibile. La situazione rilevata nel Cas di Mendicino appare solo come la punta dell’iceberg di un sis
tema che prevede ritardi sistematici (dettati, a volte, da scarse competenze degli addetti) nelle questure e negli uffici pubblici preposti al rilascio della dovuta documentazione, spostamenti continui dei migranti “accolti” e conseguenti rinvii e re-impostazioni di tutti gli iter utili all’ottenimento di documenti il cui possesso significa possibilità di vita autonoma. Sei nigeriani ospiti del centro, infatti, sono stati trasferiti dal Cas di Camigliatello, chiuso dalla Prefettura di Cosenza, a fine luglio. Altre 15 persone sono state trasferite da Messina, passando per Acri. Sono, dunque, persone in Italia da cinque mesi, sballottati da un centro all’altro, senza ancora aver avuto la possibilità di formalizzare la richiesta di protezione internazionale, e senza alcuna assistenza sanitaria. In data 12 novembre 2016 ci rechiamo nuovamente presso il centro di accoglienza di Via Santa Maria, allertati da una richiesta di aiuto pervenuta da parte degli ospiti della struttura. All’arrivo, i migranti, date le avverse condizioni meteo, ci invitano a entrare all’interno del centro. Ci riferiscono di una protesta verificatasi tre giorni prima, in seguito alla quale è stato loro sospesa la somministrazione dei pasti per due giorni consecutivi. La struttura appare particolarmente fredda, i riscaldamenti non sono in funzione. I richiedenti asilo raccontano che il pocket-money non viene loro erogato secondo le scadenze stabilite. Riferiscono che, a fronte dei 75 euro previsti, sono stati loro erogati 35 euro nel mese di settembre e 40 euro nel mese di novembre, ragion per cui hanno protestato nei giorni addietro. Il giorno successivo alla rimostranza, ci raccontano che il coordinatore del centro ha fatto ricorso alle forze dell’ordine che, giunte sul posto, hanno chiesto le generalità di uno degli ospiti. Lo stesso ci riferisce che un operatore, in seguito alla loro dipartita, gli ha comunicato che probabilmente sarà revocata l’accoglienza.
Durante il colloquio con i migranti, il mediatore culturale ci riferisce che il responsabile del centro, Franco Cosenza, allertato telefonicamente intende parlare con uno dei referenti della campagna. Al telefono, ci intima di allontanarci dalla struttura, in quanto privi di autorizzazione ad entrare. Gli facciamo presente che non è nostra intenzione soffermarci all’interno ma che non può impedirci di parlare con i richiedenti asilo fuori dalle mura del centro. Da qui parte una lamentela contro “quei gran signori (riferito ai migranti) che non fanno altro che lamentarsi”, contro la Prefettura che non ha ancora erogato alla cooperativa il finanziamento, contro di noi che non sappiamo cosa significhi gestire una struttura di accoglienza. I migranti ci accompagnano all’uscita, alcuni scalzi e con addosso vestiti leggeri. Chiediamo loro perché non indossino abiti più pesanti, date le temperature bassissime all’esterno. Ci rispondono di essere sprovvisti di vestiti adeguati per la stagione. Stiamo costretti, dunque, ad evidenziare per l’ennesima volta le storture di un sistema di accoglienza che non funziona. Com’è possibile che persone giunte in Italia da mesi, dopo esperienze di viaggio traumatiche segnate da perdite, maltrattamenti, stenti, sopravvissute a tragiche traversate, vengano “spostate” come pacchi postali da un centro all’altro senza nessuna tutela dei loro diritti? Com’è possibile che coloro che dovrebbero tutelare i migranti, facciano ricorso alle forze dell’ordine ogni qualvolta gli ospiti protestano per il mancato rispetto dei loro diritti? Il caso vuole che questo centro nasca proprio vicino ad una chiesa ribattezzata anni fa “Santuario di Santa Maria dell’Accoglienza”: ironia del destino?».
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