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I flussi migratori cambiano l’idea di cittadinanza

I flussi migratori sono oggi al centro del dibattito pubblico. Un dibattito acceso, dai toni forti, a tratti violento, solcato in diversi Paesi da pulsioni xenofobe, da spinte nazionalistiche e da …

Pubblicato il: 23/11/2016 – 17:25

I flussi migratori sono oggi al centro del dibattito pubblico. Un dibattito acceso, dai toni forti, a tratti violento, solcato in diversi Paesi da pulsioni xenofobe, da spinte nazionalistiche e da pericolose retoriche di chiusura.
Si vorrebbe distinguere tra chi arriva in Europa perché fugge da conflitti e chi vi arriva, invece, perché spinto da motivi economici. Gli uni hanno la possibilità di ottenere asilo seguendo una procedura sufficientemente chiara; gli altri debbono poter accedere al mercato del lavoro secondo procedure ben più complesse. Ma vi è chi si chiede se sia davvero possibile distinguere così nettamente: quanti giungono in Europa per motivi economici fuggono spesso da regimi dispotici, liberticidi.
Papa Francesco, tornando dal recente viaggio in Svezia, ha invitato i governanti alla «prudenza», parlando di «rifugiati» e «immigrati». A ben intendere le sue parole, non è un passo indietro rispetto al j’accuse lanciato da Lampedusa contro le politiche di chiusura e di indifferenza, ma un monito ai governi a costruire con sapienza, lucidità e lungimiranza politiche di integrazione nelle nostre società e, insieme, strategie di cooperazione internazionale e di sostegno allo sviluppo dei Paesi da cui muovono i flussi migratori.
La risposta politica appare, infatti, molto faticosa, stiracchiata, di breve orizzonte, condizionata com’è da spinte emotive (le paure della gente) o da residui ideologici (l’identità culturale e sociale del continente europeo).
Si vorrebbero innalzare barricate e muri a difesa di un concetto di cittadinanza secondo cui la sovranità dello Stato inerisce ad un determinato territorio e comporta che vi siano confini ben precisi e rigidi: di qua l’«interno», di là l’«esterno» (è la concezione dei rapporti internazionali fondata sulla pace di Vestfalia). L’interno è il territorio su cui lo Stato esercita la propria sovranità: chi si trova su quel territorio è soggetto alla legge di quello Stato. E’ il famoso nomos che, secondo Schmitt, fa della «terra […] la madre del diritto» e che rende «palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana». E’, insomma, lo spazio del «politico», dentro il quale si condividono le regole di una comune sovranità. I diritti politici, per Schmitt, «non valgono naturalmente per gli stranieri, poiché altrimenti cesserebbe l’unità e la comunità politica e cadrebbe il presupposto essenziale dell’esistenza politica, la possibilità di distinzione tra amico e nemico».
In un contesto di questo tipo, Stato e nazione, cittadinanza e nazionalità si identificano, offrendo così un naturale fondamento alla distinzione cittadini/stranieri.
Ma pensiamo davvero che sia ancora difendibile questo concetto di cittadinanza?
Al di là del fenomeno, variamente studiato, dell’erosione della sovranità statuale nell’impatto tra spinte sovranazionali, da un lato, e autonomistiche, dall’altro, è un dato di realtà che il mondo, l’Europa, l’Italia non sono che il risultato di un incrocio di civiltà, di uno scambio di culture. E’ sufficiente dire che Obama è stato per otto anni Presidente degli Stati Uniti d’America; che Londra, una tra le più importanti piazze finanziarie del mondo, ha un sindaco pachistano, Sadiq Khan, nutrito di valori di apertura e cosmopolitismo, che hanno consentito alla sua famiglia di mettere radici a Londra e a lui, figlio di un conducente di autobus, di fare carriera politica; che, sempre a Londra, i famosi magazzini Harrod’s sono di un musulmano, Mohamed Al Fayed.
Se è così, siamo davanti ad un depotenziamento dell’identità nazionale, o, come dice Beck, ad una pluralità di possibili identità nazionali, subnazionali, transnazionali, in un contesto che egli chiama «poligamia di luogo».
E’ battaglia di retroguardia quella di chi presidia un concetto di identità ormai ampiamente de-nazionalizzato. Siamo veramente convinti che lo Stato debba considerarsi come l’espressione giuridica di un gruppo umano ben identificato sul piano pre-giuridico, culturale, sociale, identitario?
La de-nazionalizzazione dell’identità rafforza l’aspettativa dei non cittadini a partecipare alle scelte che ricadono sul territorio nel quale vivono, nel quale intrecciano rapporti, nel quale costruiscono un proprio patrimonio relazionale. Siamo davanti ad un’evoluzione: se, nel linguaggio dei giuristi – ammonisce Habermas –, cittadinanza politica ha per lungo tempo significato «appartenenza statale […] ovvero nazionalità», oggi essa diventa sempre più espressione di diritti fondamentali imputabili alla persona in quanto tale (basti solo dare uno sguardo all’idea di uguaglianza affermata dalle Carte e dalle Corti internazionali). Pensiamo veramente che una cittadinanza trasmessa jure sanguinis possa reggere alle sfide della società globale? Eppure ancora naviga nelle gore del Parlamento la legge di riforma sulla cittadinanza.
Tornando, in conclusione, al richiamo alla «prudenza» lanciato da Papa Francesco, ha ragione Andrea Riccardi quando dice che la sua posizione, come sempre, non è ideologica, ma realistica: tiene conto delle paure della gente, abilmente agitate dalle forze populistiche. E, proprio per questo, è un invito forte ai governanti a non «scaricare i rifugiati su un territorio senza accompagnarli: diventerebbero un capro espiatorio».

*Ricercatore di Diritto amministrativo, Docente di Diritto urbanistico, Università Mediterranea di Reggio Calabria

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