CATANZARO Il patrimonio dei fratelli Raffaele e Giovanni Vrenna è frutto di spregiudicatezza imprenditoriale, unita alla consapevolezza di poter facilmente sopperire alle richieste estorsive, ma non vi sono elementi per sostenere l’appartenenza all’omonima cosca o l’avere agito per favorire e rafforzare la consorteria di Crotone. Questo è quanto emerge dalle motivazioni della sentenza che hanno portato i giudici della corte d’Appello di Catanzaro a respingere la richiesta, già rigettata in primo grado, di sequestro del patrimonio Vrenna e di sorveglianza speciale per cinque anni.
Sono sette gli elementi sui quali si basava la richiesta di sequestro dei beni dei fratelli Vrenna, che secondo l’accusa è frutto di un rapporto di intesa con la criminalità organizzata crotonese, per l’esattezza con la consorteria Vrenna-Corigliano-Bonaventura.
La fonte degli indizi dell’appartenenza dei Vrenna ad una associazione ’ndranghetistica sono le risultanze dell’operazione antimafia del 2006 denominata “Puma”; le risultanze dell’operazione “Heracles”; i rapporti di parentela col gruppo criminale Vrenna; le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Luigi Bonaventura, Giuseppe Vrenna, Angelo Cortese e Domenico Bumbaca; precedenti penali e di polizia rilevati nella banca dati Sdi delle forze di polizia; frequentazioni con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata; precedenti di carattere amministrativo, relativi a condotte “moralmente riprovevoli”.
PUMA La vicenda riguarda la realizzazione di un villaggio turistico realizzato a Isola Capo Rizzuto e i rapporti intrattenuti da Raffaele Vrenna con la criminalità organizzata del luogo. Secondo i giudici «Vrenna era mosso dal solo intento di soddisfare, mediante la costruzione del villaggio di Praialonga, il suo personale interesse al perseguimento di un guadagno. […] In altri termini, era proprio il potere economico a rendere Vrenna, nella granitica fedeltà alle spregiudicate logiche-guida della su attività imprenditoriale, sicuro di poter fronteggiare qualsiasi ostacolo», comprese le perdite dovute alle “ricompense” date alle cosche. In sostanza dalla vicenda emerge la condotta di Vrenna di agire cercando di raggiungere il suo obbiettivo economico ma vi è la mancanza di indizi che provino che abbia agito per favorire e rafforzare la cosca sul territorio.
I COLLABORATORI Dall’operazione “Heracles” emergono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Secondo i giudici le dichiarazioni sono generiche e carenti di indicazioni fattuali specifiche. Tratto comune alle dichiarazioni dei collaboratori, secondo la corte, è «l’indiretta percezione dei termini di un rapporto, quello tra Vrenna Raffaele e i vertici della cosca omonima, che pure di sforzano di descrivere ricorrendo ad affermazioni, spesso, in contraddizioni intrinseche». In alcuni casi, come quello di Luigi Bonaventura, le dichiarazioni sono vaghe e costellate da «si parlava», «sono convinto che…», «ho sentito…», «credo che…». Ma senza fornire granitici riscontri. Ed ecco che i giudici della corte d’Appello di Catanzaro giungono alle medesime conclusioni raggiunte con Puma: «L’unico vantaggio posseduto da Vrenna Raffaele, era rappresentato dal suo potere economico e la spregiudicatezza imprenditoriale con cui lo esercitava, unitamente alla consapevolezza di poter facilmente sopperire alle richieste estorsive, lo rendevano un personaggio tendente ad evadere i tipici schemi della criminalità organizzata, dalla personalità inevitabilmente scomoda, anche tra gli esponenti delle associazioni criminali, tra i quali proprio Luigi Bonaventura che pretendevano una fetta dei suoi profitti». Anche i rapporti di lontana parentela non forniscono una prova circa l’appartenenza dei fratelli Vrenna all’omonima cosca. In alcuni casi si colgono indizi di segno contrario come il fatto che all’epoca della reggenza di Gianni Bonaventura, per esempio, si fosse dato benestare alla progettazione di un attentato volto alla gambizzazione di Raffaele Vrenna, organizzato da Nicolino Grande Aracri e Leo Russelli, affinché si mettesse in regola con le associazioni criminali della zona.
LA LEGITTIMITA’ DEL TRUST A giugno 2008 Raffaele Vrenna venne condannato in primo grado nel processo Puma per concorso esterno in associazione mafiosa (con sentenza riformata in appello con una assoluzione piena). Questo comportava l’assoggettamento delle aziende del gruppo Vrenna all’interdittiva antimafia emessa a luglio dal prefetto con la conseguente inibizione dei loro rapporti con la pubblica amministrazione.
Ad agosto l’imprenditore istituì un trust estromettendo la sua figura dalla gestione delle imprese. L’accusa contesta al gruppo Vrenna il trasferimento fraudolento di valori. Ma, secondo la corte d’Appello, «con l’istituzione del trust il Vrenna optava per la soluzione di farsi da parte per consentire al suo gruppo di aziende di conseguire, sotto la nuova guida del trustee, il vitale rilascio della certificazione antimafia». In più, aggiungono i giudici, «l’ingerirsi del Vrenna Raffaele nella gestione aziendale cui allude la pubblica accusa, con riferimento al periodo successivo all’istituzione del trust, necessiterebbe, infatti, di una condotta, assente nel quadro indiziario di specie, ben più articolata della semplice erogazione di finanziamenti […]».
Alessia Truzzolillo
a.truzzolillo@corrierecal.it
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