“Un Diamante è per sempre”, assicurava la pubblicità. In Calabria dopo questo tsunami post referendum non è più così. Qui è corretto dire “Un Iacucci è per sempre”.
A Diamante, paese dell’ex sindaco onorevole Ernesto Magorno, il “No” stravince. Ad Aiello Calabro, paese del sindaco Franco Iacucci, invece, stravince il “Sì”. Magorno, renziano della prima ora, è segretario regionale del Pd. Iacucci, invece, olivieriano da sempre, è il capo della segreteria del governatore.
Battute a parte e richiusi i seggi elettorali, una riflessione seria andrebbe fatta e va oltre il dato della performance politica del Pd calabrese. Una riflessione che vada oltre gli schieramenti classici e le appartenenze politiche. Riflettere, occorre, su tre lezioni che le urne impartiscono.
La prima: l’esercizio smodato del potere e il ricorso spericolato alla clientela non assicura più la vittoria elettorale. La seconda: esiste, anche in Calabria, il voto di opinione e se non emerge pienamente è soltanto perché nessuno ha fornito le credenziali politiche necessarie per accaparrarselo. La terza: se c’è vero interesse, la gente torna alla democrazia.
I dati calabresi del referendum seppelliscono la gestione del potere fine a se stessa. Come spiegare diversamente il fatto che un esercito (la totalità) di consiglieri regionali, l’intera giunta, tre sottosegretari e l’intera deputazione parlamentare con eccezione per il solo Nico Stumpo, non riescono a raccogliere più di 276mila voti? Roba che, quando la clientela era una cosa seria, veniva raggranellata da due o tre big. Messi insieme, questi mestieranti di oggi valgono meno del numero di preferenze che, nella Prima Repubblica, raccoglievano Riccardo Misasi, Vico Ligato e Carmelino Pujia.
Esiste un voto d’opinione, mancano i soggetti dotati della credibilità necessaria per intercettarlo: gli unici dibattiti sul referendum che hanno appassionato sono stati quelli messi in piedi da “laici” che nella riforma proposta da Renzi credevano o non credevano o credevano solo parzialmente. Un’azienda che straccia tutti i record in termini di crescita del fatturato, pulizia della formazione e del reclutamento del personale, innovazione tecnologica, mena vanto di un altro primato: «Non abbiamo mai avuto e non abbiamo mai chiesto contributi o finanziamenti pubblici». Ai partiti chiedono: «Non un passo indietro, al contrario un passo avanti, ma in direzione opposta a quella che oggi seguono». Chiedono normalità invece di normalizzazione. Esempio concreto, in luogo di astratta enunciazione di programmi. Meritocrazia, al posto della cooptazione.
Infine la democrazia partecipata: vorrà pur dire qualcosa se i calabresi che hanno votato per il referendum sono in numero sensibilmente maggiore rispetto a quelli che hanno votato alle ultime regionali. Otto calabresi su cento tra quelli che disertarono le urne nel 2014, si sono presentati ai seggi domenica scorsa. E non sono stati gli sbarchi in Calabra di Renzi, Boschi, Martina, Orlando, De Vincenti, Lorenzin, Madia, Poletti, Delrio, Ferri, Alfano, Lotti, a spingerli a farlo, visto che nonostante i bombardamenti mediatici, le caramellose promesse e gli smodati ammiccamenti, l’esito del voto è stato catastrofico per loro.
Una porcata è una porcata e siccome di porcate ai calabresi ne sono state rifilate tante, non basta certo la passerella ministeriale a convincere di subirne un’altra. Così come non bastano mille contorsionismi mediatici per far preferire ai calabresi, dati i tempi prenatalizi, a rinunciare alla “pitta ‘mpigliata” in favore di un qualsiasi panettone Motta. Coerente, artigianale, ancorata alla tradizione popolare la prima, industriale, pacchiano, dozzinale, il secondo.
Eppure è proprio in questa articolata riflessione che si annida la speranza. Una Calabria che resiste alla clientela e agli ammiccamenti del potere, che abbandonai retaggi dell’occupazione piemontese per sentire sua, inviolabilmente sua, la “Carta costituzionale”. Un popolo che non cede alle lusinghe di chi si ripromette di far rientrare “i cervelli” dopo essere stato quello che li ha messi “in fuga”. Sono le premesse di una svolta ancora possibile. E siccome non tutto quello che c’è, anche politicamente parlando, è proprio da buttare, ecco che anche la severa lezione impartita dal voto referendario può tornare utile. A patto che si abbia l’umiltà di ammettere gli errori e la pulizia necessaria a riempire di contenuti le, fin qui vuote, promesse di cambiamento ciclicamente assunte dai big politici di casa nostra. È vero, il populismo è un rischio terribile ma l’alternativa non può essere il turarsi ancora il naso.
direttore@corrierecal.it
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