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Il sogno “normale” di Daoude, dall’Africa alla Calabria

Daoude vuole diventare uno scienziato. «Prima o poi – dice – l’uomo arriverà anche sul sole». La fa facile, lui, dall’alto dei suoi 10 anni: «Basta costruire una navicella che resiste al calore». F…

Pubblicato il: 11/12/2016 – 9:07
Il sogno “normale” di Daoude, dall’Africa alla Calabria

Daoude vuole diventare uno scienziato. «Prima o poi – dice – l’uomo arriverà anche sul sole». La fa facile, lui, dall’alto dei suoi 10 anni: «Basta costruire una navicella che resiste al calore». Fantasticando sui suoi progetti cammina salterellando nei vicoli di Arena, piccolo centro dell’entroterra vibonese. Come ogni giorno, finita la scuola, il piccolo bus lo accompagna nella piazza centrale del paese e lì ad aspettarlo c’è Batrou, la sua giovane mamma.
Lei e suo marito, Mohamed, vengono dal Mali ma Daoude, sua sorella Nassau (9 anni) e il fratellino Abdou (6) sono nati in Libia, a Tripoli. Si trovavano lì quando scoppiò la guerra civile, tra il 2010 e il 2011, ma mentre tentavano di lasciare il Paese sono stati catturati e imprigionati dalla polizia di Gheddafi. Due giorni e due notti terribili, in galera. Poi i soldati li hanno caricati a forza su un barcone che, però, non avrebbe mai raggiunto le coste italiane.

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Batrou ha 35 anni, è introversa e maschera la timidezza sorridendo. Quando le si chiede di quel viaggio cambia tono. Chiude gli occhi e spiega che è proprio così, imponendosi di non guardare altro se non i suoi tre bambini, che è sopravvissuta a quell’incubo. Teneva sempre gli occhi chiusi, sul barcone, per non vedere il destino che le sarebbe potuto toccare: dopo due giorni e una notte in mare avevano iniziato a imbarcare acqua. Stavano letteralmente affondando quando un elicottero si è accorto dell’imbarcazione e ha allertato i soccorsi. Tratti in salvo, sono stati portati a Lampedusa. Primo soccorso, identificazione, visite mediche, 15 giorni di Cie e poi trasferimento a Monza nell’ambito dei programmi di accoglienza del Ministero dell’Interno. Poi, nel 2014, una nuova destinazione: dal Nord produttivo la famiglia di Daoude viene mandata nel profondo Sud: Arena, borgo dalla storia antica e nobile, oggi poco più di mille abitanti con una popolazione media non certo giovanissima.

Arrivarci da Vibo o da Serra San Bruno non è facile, le malmesse strade provinciali attraversano i boschi lasciandosi alle spalle le montagne delle Serre e facendo intravedere qualche scorcio tirrenico. Anche qui, come in tutti i centri dell’entroterra, c’è una storia lunga e inarrestabile di emigrazione, e il paese ha ripreso qualche sintomo di vitalità grazie all’attivismo del giovane sindaco Antonino Schinella, che è tra i sostenitori più convinti dello Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito dagli enti locali.
Il primo approccio della famiglia di Daoude con la realtà paesana ovviamente non è stato facile. Non lo è mai, né per chi arriva né per chi accoglie. Ma la diffidenza non è durata tanto. E in meno di due anni Batrou, Mohamed e i loro tre figli sono usciti dal programma Sprar.

Nel frattempo la giovane mamma ha seguito un corso di formazione ed è diventata mediatrice interculturale: la cooperativa (Cooperazione Sud per l’Europa) che gestisce il programma di accoglienza le ha fatto un contratto di lavoro che le permette di vivere dignitosamente. A suo marito, invece, un anziano del luogo ha concesso l’uso di un terreno che era abbandonato e che ora lui coltiva con cura traendone buoni frutti. Il Comune li ha aiutati a trovare una casa nel centro storico e, oggi, vivono del proprio lavoro riuscendo ad essere totalmente autonomi. E integrati, perché basta fare due passi con loro per capire quanto ad Arena siano a casa.

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Ovviamente non è tutto rose e fiori. C’è stato in passato qualche momento di tensione e anche oggi non mancano le incomprensioni quotidiane, ma questa piccola comunità, con tutte le sue contraddizioni e i suoi disagi, sta vivendo tutto sommato in armonia con le poche decine di migranti che rientrano nello Sprar. Dal lunedì al venerdì africani, afghani, pachistani, iracheni seguono tutti insieme i corsi di Italiano e, nei periodi in cui il clima lo consente, molti di loro lavorano alla “fattoria dell’accoglienza”.

Insomma quella di Arena, di Batrou e della sua famiglia è solo una piccola storia. Niente di bucolico, nessun idillio incantato, solo esistenze silenziose, vite finalmente “normali” che vale la pena raccontare per non rimanere schiacciati tra il buonismo conformista e le barricate a difesa del nulla. Parlandoci, sembra quasi che lo sappia anche Daoude, che ormai è grande e certe cose le capisce. Al momento però ha un pensiero più impellente: «Sarebbe bello – ragiona ad alta voce – se le vacanze natalizie fossero anticipate di una decina di giorni». Quello che invece non sa, dall’alto dei suoi 10 anni, è che è anche grazie a lui e ai suoi fratelli se la scuola di Arena non ha ancora chiuso i battenti per mancanza di alunni.

Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it

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