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La pizza di Zuckerberg è calabrese

PALO ALTO Quando dall’Italia decidi di partire alla volta dell’America, la cosa che ti manca di più è il cibo. Se parti dalla punta dello Stivale, poi, è ancora più complicato. La pizza e la pasta …

Pubblicato il: 31/12/2016 – 17:13
La pizza di Zuckerberg è calabrese

PALO ALTO Quando dall’Italia decidi di partire alla volta dell’America, la cosa che ti manca di più è il cibo. Se parti dalla punta dello Stivale, poi, è ancora più complicato. La pizza e la pasta mancano più di ogni altra cosa. Che fare allora per combattere l’astinenza? Ci hanno pensato due fratelli di Scalea, Franco e Maico Campilongo.
Franco si laurea in economia e gestione dei servizi turistici all’università di Cosenza. Maico invece, prende altre strade dopo aver tentato ingegneria informatica a Pisa ed economia a Cosenza. Poi decidono di partire, di ricominciare da zero, portando l’arte della pizza fino a Palo Alto, nella Silicon Valley, dove fanno nascere “Terùn”, a febbraio del 2013.
“Terùn” è il ristorante casual – come lo definisce Maico – in cui la regina assoluta non è solo la pizza, ma tutta la cucina tipica del sud Italia. A distanza di tre anni, decidono di restituire onore e orgoglio anche alla pasta, quella cotta “al dente”, all’italiana. Nasce così, a luglio 2016, “Italico”, un posto più chic dov’è possibile assaporare i piatti “ben cotti” dell’intera penisola.
«Abbiamo fatto un processo contrario a quello di Garibaldi: “Terùn” ovvia influenza della gastronomia dell’Italia meridionale, “Italico” dalla Sicilia alle Alpi. Così in questo mondo che si separa e sembra cadere a pezzi, abbiamo rifatto l’unità d’Italia a Palo Alto» spiega Maico.

“Qui ho cominciato a sognare”

La star di Holliwood James Franco a Terùn
(La star Hollywood James Franco a Terùn)

L’America non è poi così lontana a quanto pare: sono bastati due contatti telefonici e altrettanti smartphone per raggiungere Maico direttamente nel sul ufficio di “Italico”.

Da Scalea in California. che ricordo hai dei primi giorni in cui hai messo piede nella terra promessa?
«Paura, perché non parlavo la lingua. Il primo ostacolo, che sembra insormontabile è proprio questo. Anche se studi un po’ di inglese in Italia, è terribile ritrovarsi a parlare un idioma che non è il tuo. Ho pianto parecchie volte, ma poi mi sono detto “ce la farò”. All’inizio ti offri a lavori umili: ho fatto il lavapiatti, poi ho fatto i caffè per il Caffè Venezia e alla fine la voglia di fare è aumentata. Ti guardi intorno e respiri l’energia positiva della Silicon Valley. Qui ho ricominciato a sognare. In qualche modo, qui sai che se fallisci in una cosa, hai imparato qualcos’altro e sicuramente non ricommetterai lo stesso errore. Sembra un’utopia, invece è un’energia contagiosa che respiri inevitabilmente quando sai che se metti impegno in ciò che fai, i risultati arrivano».

Perché proprio terùn come nome del ristorante? È un epiteto dispregiativo per i calabresi, che tutt’oggi viene subìto come un insulto. Voleva essere una forma di riscatto?
«Sì, una provocazione se vogliamo. All’inizio avevamo scelto “Terrone”, ma dopo tre mesi ci giunse una lettera dai proprietari del ristorante “Terroni” di Los Angeles in cui ci intimavano a cambiare il nome perché troppo simile al loro. Ci riunimmo per decidere cosa fare, ma fu semplice. Forse meno di 10 secondi per decidere di rinominare il ristorante “Terún”. Probabilmente fu il destino, perché anche il nostro socio e chef, Kristyan D’Angelo anni prima aveva cercato di comprare la targa per la sua macchina con scritto su Terrone: rigettata; e optò per Terún. Di fatto non sono mai stato chiamato terrone nella mia vita, terùn invece sì, ma adesso è diventato un distintivo d’onore: non deve più essere un’offesa, Terùn è orgoglio».

Invece come vi è venuta l’idea di fondare “Italico”?
«La nuova start up – ci piace considerare i nostri ristoranti così – apre i battenti il 24 luglio 2016: una nuova ed eccitante avventura a soli 150 metri da “Terùn”. Non era pianificato: avevamo osservato qualche posto nelle vicinanze, ma nulla ci sembrò abbastanza conveniente. Poi un bel giorno il proprietario del ristorante che c’era prima è venuto direttamente da me, in compagnia di un amico, Elio D’Urzo, proprietario di un ristorante nel quale sia io che mio fratello che mio cugino avevamo lavorato in passato. In realtà la proposta di rilevare l’attività era stata fatta a lui, ma Elio credeva che fossimo noi – già proprietari di “Terùn” – il naturale proseguo di quell’attività, che non riusciva più a sostenere le spese di gestione. Abbiamo aperto “Italico” per quattro motivi: volevamo fare una cosa nuova; avevamo bisogno di più spazio, anche per eventi privati; volevamo creare un menù diverso, ma soprattutto creare nuovi rapporti di fiducia. Infatti, con “Italico” siamo tre soci finanziatori angel investitors e otto soci che si suddividono il lavoro in entrambi i locali. Il concetto che sta alla base è il cooperativismo, perché come diceva Richard Branson, bisogna istruire bene i propri collaboratori al punto che loro possano andar via, ma trattarli bene al punto che non vorranno farlo: abbiamo ragionato un po’ così per la nuova start up».

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Da lontano, che rapporti hai mantenuto con l’Italia?
«Ho tanta nostalgia di tornare in Italia. Mai dire mai! Anzi, si può dire che il ritorno è vicino! Il mio amico Federico Faggin dice che a un certo punto nella vita bisogna restituire alla società quello che abbiamo preso. Anche noi a questo punto del nostro breve percorso pensiamo sia il momento di restituire alla nostra terra un po’ di quello che abbiamo preso, perché se siamo chi siamo è grazie a Lei, che ci ha dato i natali e nonostante siamo partiti non finiremo mai di amarla».

I giovani italiani sono sempre più incerti sul futuro che li aspetta. Molti preferiscono non pensarci e concentrarsi sul presente, magari sugli studi, “poi si vedrà!”. Voi dopo gli studi avete deciso di ricominciare tutto da zero, Oltreoceano. A distanza di anni, che consigli daresti agli “italiani del futuro”?
«Sicuramente, partire; anche tornare. La fuga e il ritorno. Il mio invito è sempre a guardare la storia, prendiamo per esempio il filosofo calabrese Tommaso Campanella, un nostro “conterroneo”: nasce in Calabria, vive a Napoli, si trasferisce a Padova, a Pisa, poi Siena, muore a Parigi. Immaginiamo quanto fosse complicato nel 1600 viaggiare, spostarsi in Italia e per l’Europa. Così come Tommaso Campanella, molte figure che hanno cambiato il mondo con il loro pensiero e le loro idee e poi sono tornati nella propria terra hanno girato il mondo, che li ha nutriti di esperienze. La storia è fatta di corsi e ricorsi: sarebbe il caso di ripercorrere in chiave moderna la capacità di crescere culturalmente viaggiando e ritornando. Il ritorno fisico o il ritorno delle proprie idee oggi, dove grazie alla tecnologia le distanze si accorciano, tutto ciò è molto più facile da applicare. Quello che consiglio a chiunque, anche ai nostri connazionali, è di mettere passione in ogni cosa che fanno. Non è facile riuscire, ma si può fare. Altra cosa che mi sento di dire ai miei connazionali è di essere più umili, perché spesso se si va fuori si arriva anche lavare i piatti, però in Italia no, perché si è laureati. Invece sì! Non vi preoccupate, che prima o poi le cose succedono pure se sei un ingegnere e devi lavare i piatti: li laverai meglio e poi farai un salto di qualità!».

Al centro Maya Di Rado medaglia doro alle Olimpiadi Brasile 2016
(Al centro Maya Di Rado, medaglia d’oro a Rio 2016)

Torniamo al ristorante. Secondo molti rumors, “Terùn” e adesso anche “Italico” sono frequentati e apprezzati dai fondatori delle più grandi start up. Vi siete abituati a vederli entrare nel locale o vi fa sempre un certo effetto? Alla fine siete famosi anche voi!
«Beh, sì! Viene spesso Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. La prima volta non l’avevo riconosciuto, gli ho solo chiesto se era un fan della bicicletta! Poi Larry Page, co-fondatore di Google Larry Page, amico di una nostra cliente: adora la pizza napoletana. Una volta è passato Mark Zuckerberg, che invece ha fondato Facebook. L’album del locale è una raccolta di aneddoti sugli imprenditori informatici più celebri del mondo. Poi gli italiani dell’hi-tech, come Pierluigi Zappacosta, uno dei fondatori di Logitech o Federico Faggin, capoprogetto dell’Intel 4004, il primo microprocessore. Federico quando viene da noi ordina un espresso e mentre lo beve, ci spiega perché un computer non potrà sostituire l’uomo. Sembra banale, ma se a dirlo è l’inventore del microprocessore, vi assicuro che assume tutto un altro spessore. È passata una sera anche Oprah Winfrey. Noi non abbiamo fatto nulla di speciale, però le soddisfazioni ci sono state, senza dubbio».

Non rassegnarsi alla fuga

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Quanto sarà mai vicina la data del loro ritorno? Il 25 febbraio Maico e Franco saranno in Italia, in Calabria. Partendo dai luoghi d’origine, proporranno all’Hotel Santa Caterina di Scalea, alla presenza del sindaco e di tutti gli abitanti, un progetto di investimento a basso costo per la città. La loro passione non è solo il cibo italiano, amano soprattutto andare in bicicletta. Insieme a un gruppo di amici hanno fondato la “Squadra ciclistica Terùn – Scalea”. Sarà il team a spiegare la semplicità di un progetto che a lungo termine favorirà la presenza di turisti amanti delle due ruote. Basterà ricavare piste ciclabili da strade già esistenti, aggiungere qualche divieto di sosta in più, ma soprattutto il rispetto delle regole da parte di tutti.
«Il ciclismo è stato definito il nuovo golf. Sì, alla pari del golf la bicicletta è attrazione per persone di successo nel mondo del business, capace soprattutto di aumentare la socializzazione». Rossano Bruno, presidente della squadra, è un altro ragazzo come Maico e Franco, che non si è rassegnato alla fuga. L’obiettivo per loro è far arricchire la Calabria con il turismo ciclistico. «Vogliamo imitare un po’ quello che succede qui a Palo Alto: il turismo ciclistico crea business – almeno a noi al ristorante lo ha creato».
(Per capire meglio l’idea del progetto Calabria: http://ingamba.pro/)

Carmen Baffi
redazione@corrierecal.it

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