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Cosenza, le «estorsioni legalizzate» della mala

COSENZA Ha raccontato come e perché imponevano la “sicurezza” nei locali notturni di Cosenza, i cui proventi finivano poi nella bacinella del clan. Il pentito Giuseppe Montemurro è stato ascoltato …

Pubblicato il: 10/01/2017 – 15:30
Cosenza, le «estorsioni legalizzate» della mala

COSENZA Ha raccontato come e perché imponevano la “sicurezza” nei locali notturni di Cosenza, i cui proventi finivano poi nella bacinella del clan. Il pentito Giuseppe Montemurro è stato ascoltato dal Tribunale di Cosenza come testimone nel processo “Nuova famiglia” contro i presunti affiliati ai Rango-Zingari, clan che dominava il territorio soprattutto attraverso lo spaccio di droga e le estorsioni. Sul banco degli imputati, che hanno scelto il rito ordinario, ci sono Daniele Lamanna, Franco Bruzzese, Francesco Vulcano, Antonio Chianello, Alessio Chianello, Stefano Carolei, Gianluca Cinelli, Gianluca Marsico, Sharon Intrieri, Jenny Intrieri, Anna Abbruzzese e Giovanni Fiore. Secondo l’accusa, gli imputati avrebbero fatto parte del clan Rango-Zingari al cui vertice ci sarebbe Maurizio Rango.
La cosca, nel tempo, avrebbe stretto alleanze con altre due consorterie criminali attive nel Cosentino, le cosche Lanzino-Patitucci e Perna-Cicero-Musacco-Castiglia. L’associazione – sempre secondo l’inchiesta – avrebbe gestito il racket delle estorsioni imponendo il pizzo anche con la violenza. Il pm della Dda Pierpaolo Bruni ha chiesto al collaboratore di giustizia di riassumere la sua “carriera criminale” e poi di spiegare in quale periodo Maurizio Rango ha iniziato a far parte del clan Rango-Zingari. «Mi occupavo – ha detto il pentito – di estorsioni e guardiania nei locali. Con l’organizzazione di cui facevo parte imponevamo la sicurezza nei locali notturni. Imponevamo tutto noi. Di questi proventi toglievamo 40 euro che davamo a ciascun ragazzo e il 50% finiva nella bacinella della cosca. La bacinella era gestita prima dal gruppo degli italiani, tra cui Patitucci e D’Ambrosio, e poi da Maurizio Rango».
Montemurro, difeso dall’avvocato Emanuela Capparelli, ha spiegato al collegio (presieduto dal giudice Enrico Di Dedda) come avveniva quello che lui stesso ha definito il meccanismo delle «estorsioni legalizzate. Emettevamo delle fatture – ha detto il collaboratore – ma non pagavamo l’Iva. Quando arrestavano qualcuno aspettavamo il nuovo boss per poter versare i proventi delle estorsioni nella bacinella».
Rispondendo alle domande delle difese, Montemurro ha specificato alcuni particolari delle estorsioni nei locali e dei rapporti con gli imputati di questo procedimento. Il pentito, nonostante non fosse in perfette condizioni fisiche, ha ricostruito in modo lucido il sistema delle guardianie nei locali, confermando quanto già dichiarato ai magistrati nel percorso collaborativo. Dopo Montemurro, il collegio ha iniziato ad ascoltare alcuni testimoni della difesa. Il processo è stato aggiornato al prossimo 9 febbraio.

Mirella Molinaro
m.molinaro@corrierecal.it

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