LAMEZIA TERME Mentre nel corso degli anni politici di ogni ordine e grado sgomitavano per avere qualche centimetro di nastro da tagliare e qualche metro di strada da inaugurare, le ‘ndrine della zona banchettavano sui lavori della Trasversale delle Serre. Che la storia di una delle più note incompiute calabresi – una “superstrada” di cui si parla da mezzo secolo che dovrebbe collegare Jonio e Tirreno passando per le Serre vibonesi e catanzaresi – avesse incrociato gli appetiti della ‘ndrangheta lo si sospettava da tempo, specie alla luce delle diverse intimidazioni avvenute nei cantieri e di fatti di sangue mai risolti, ma per la prima volta un pentito ne parla ai pm antimafia fornendo indicazioni circostanziate su come ciò sarebbe avvenuto.
A tratteggiare il contesto criminale in cui sarebbe maturata la “seconda faida dei boschi”, che ha insanguinato il triangolo di territorio compreso tra Soverato, Guardavalle e Serra San Bruno, è il collaboratore di giustizia Gianni Cretarola le cui dichiarazioni, rese ai pm della Dda catanzarese Vincenzo Capomolla e Giovanni Bombardieri, sono confluite nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip nei confronti di Massimiliano Sestito (ritenuto il capo della ‘ndrina di Gagliato), Cosimo Zaffino e Pietro Catanzariti, arrestati martedì dai carabinieri nell’ambito dell’operazione “Showdown 3”.
Sarebbe stato proprio Sestito, durante un periodo di detenzione comune nel carcere di Sulmona, a far entrare Cretarola nella ‘ndrangheta. Il pentito, che descrive nei particolari anche il rito di affiliazione avvenuto nel 2008 nella calzoleria del penitenziario, sarebbe poi dovuto diventare – pur avendo “base” in Liguria, a Ventimiglia – il “contabile” del locale di ‘ndrangheta guidato da Sestito, dal quale avrebbe appreso molti dei segreti delle cosche locali che, dall’agosto del 2013, ha poi raccontato ai magistrati.
IL GRANDE BUSINESS DELLA TRASVERSALE A riconoscere lo spessore ‘ndranghetista di Sestito era stato quello che il pentito indica come il “capo bastone” di Serra San Bruno, Damiano Vallelunga (ucciso a Riace nel settembre del 2009). Il locale guidato da Vallelunga era formato, secondo il pentito, da sette ‘ndrine operative in altrettanti paesi: Torre di Ruggiero (Chiefari), Chiaravalle (Iozzo), Soverato (Sia), San Sostene (Procopio e Lentini) e Vallefiorita (Bruno). Una “struttura” ‘ndranghetista i cui equilibri interni, però, cominciarono a rompersi proprio perché Vallelunga avrebbe a un certo punto riconosciuto che il comando su Gagliato spettava a Sestito. E ciò avrebbe creato dissapori con le famiglie Iozzo e Chiefari. A queste ultime, in un periodo in cui secondo il pentito stavano facendo dei lavori a Gagliato, venne fatta una richiesta di 20mila euro che sarebbe stata tra le cause scatenanti della “seconda faida dei boschi”. In un primo momento, dunque, alcuni tra i componenti del locale, come il boss di San Sostene Fiorito Procopio, sarebbero stati convinti – sempre stando alle dichiarazioni di Cretarola – che dietro l’accendersi della faida ci fossero proprio le famiglie di Torre e Chiaravalle, mentre Sestito avrebbe avuto una visione più ampia ritenendo che si trattasse – come poi sarebbe emerso – di una strategia di altri clan più potenti come quello dei Gallace di Guardavalle.
«Per questa diversa visione hanno avuto molti scontri – dichiara Cretarola – perché Fiorito Procopio identificava nei suoi nemici i Chiefari e gli Iozzo e vantava di essere più forte sia ‘ndranghetisticamente parlando che militarmente, che economicamente e quindi vedeva dei nemici tranquillamente sempre da poter tenere a bada. Mentre Sestito, sapendo della questione ambientale, sapendo di questo grande business della Trasversale delle Serre, sapendo della volontà dei locali e tanto altro, dice: “Loro non sono persone che hanno la possibilità di agire in questi termini, c’è un disegno più grande, tu non vedi il quadro generale, tu vedi solo una parte, c’è la testa di imbuto…”».
L'”AMBIENTE ‘NDRANGHETA” E I GRANDI APPALTI Il pentito racconta dunque ai pm dei pagamenti imposti agli imprenditori che lavoravano sulla Trasversale delle Serre specificando che era stata prestabilita la percentuale del 3% come estorsione anche su tutti gli altri appalti pubblici che interessavano il territorio. Una cifra, questa, che veniva poi spartita tra le ‘ndrine del luogo e a cui andava aggiunta la fornitura di materiale edile, che doveva spettare a un «amico di Sia Vittorio», e la manodopera.
Sestito avrebbe dunque raccontato al pentito che non era solo una questione locale ma che «tutto l’ambiente ‘ndrangheta» era coinvolto in queste decisioni su grandi appalti pubblici. Il 3% secondo il pentito andava al locale di Serra, ma «Vallelunga non riceveva lui direttamente ma lo riceveva questo amico di Sia, perché, come diceva lui, essendo lui che faceva le forniture edili poteva avere questo contatto con questi ingegneri, architetti, non lo so io con chi». «Successivamente – aggiunge il pentito – (Sestito, ndr) mi disse anche se volevo lavorare c’era la possibilità di fare la guardiania in qualsiasi posto in qualsiasi cantiere di questa cosa, cosa che fece fare a Cosimo Zaffino, lo fece assumere come guardiano».
«È L’ESTORTO CHE VIENE DA TE» Il presunto capo società di Gagliato avrebbe poi spiegato a Cretarola le dinamiche con cui avvenivano le estorsioni nel Soveratese: «Quando io volevo a Sestito Massimiliano proporre qualche estorsione tipo nella Liguria – racconta il pentito – che sapevo di possibilità appetibili, lui mi diceva: “Ma non scherziamo proprio, noi ci concentreremo solo ed esclusivamente là perché là le cose già sono accordate ed è l’estorto che viene da te per chiedere di riparare il danno e non tutta la trafila invece di fare prima l’azione, poi la richiesta la relativa denuncia e problematica”». Il pizzo del 3%, a cui oltre alla fornitura del materiale andava aggiunta la manodopera, veniva poi distribuito alle ‘ndrine della zona in misura proporzionale rispetto ai paesi interessati più da vicino dai lavori.
Ma Sestito secondo il pentito si occupava anche di altri affari, come la droga, collaborando con alcune famiglie di Platì e imponendo una sorta di pizzo anche sulla produzione di marijuana nel “suo” territorio: aveva stabilito che chiunque coltivasse “erba” a Gagliato e dintorni «doveva dare 100 grammi a pianta come contributo».
Sergio Pelaia
s.pelaia@corrierecal.it
x
x