REGGIO CALABRIA Un sistema integrato che da Cosenza a Gioia Tauro ha piegato gli appalti pubblici al codice della ‘ndrangheta, consegnandoli alle imprese dei clan. È questo il quadro sconfortante che emerge dalla maxioperazione congiunta delle Dda di Reggio Calabria e Catanzaro, che oggi ha portato al fermo di 35 persone e al sequestro di 54 imprese. Al centro dell’indagine, l’attività di due gruppi imprenditoriali, i Bagalà di Gioia Tauro, espressione del potentissimo clan Piromalli, e il cosentino Barbieri, legato ai potentissimi Muto di Cetraro. Forti entrambi della protezione di un potente casato di ‘ndrangheta, i due gruppi imprenditoriali non solo hanno più volte lavorato insieme – i Barbieri hanno lavorato al waterfront di Gioia Tauro, i Bagalà a piazza Bilotti a Cosenza – ma hanno mostrato di avere metodi speculari e ugualmente illeciti per accaparrarsi gli appalti pubblici per centinaia di milioni di euro. Ecco perché l’indagine congiunta delle due Dda calabresi, ecco perché – ci ha tenuto a sottolineare Gratteri – «insieme siamo più forti».
ATTIVITÀ STORICA PER I CLAN «Cambiano i metodi, ma l’inquinamento delle gare per mettere le mani sugli appalti pubblici non è cosa nuova per la ‘ndrangheta», commenta il procuratore capo Nicola Gratteri, che ricorda «la prima volta che ci siamo imbattuti in circostanze del genere risale al 1989, quando il sequestro lampo del sindaco di Bovalino ci ha insospettito. Indagando, abbiamo scoperto un cartello molto simile a quello gestito dal gruppo Barbieri». Oggi, continua, sono cambiati i metodi di comunicazione fra imprenditori e boss, i metodi di mascheramento della presenza mafiosa sono diventati più complessi e sofisticati, ma la sostanza non cambia: gli appalti sono cosa loro.
NELLA PIANA FUNZIONA COSÌ A Gioia Tauro il clan Piromalli ha scelto i Bagalà per mettere le mani su strade, ristrutturazioni e nuove infrastrutture, finanziate con denaro pubblico. «E per loro è stata la svolta cruciale», spiega il procuratore aggiunto Gaetano Paci. Già finiti al centro dell’indagine Ceralacca 2, che ha svelato l’inquinamento mafioso degli appalti assegnati dalla Provincia, i Bagalà sono riusciti a fare il salto di qualità proprio grazie al legame stretto con lo storico casato mafioso. Un’evoluzione misurabile nel numero di imprese di altre regioni che hanno improvvisamente deciso di entrare in Ati o Rti con il piccolo gruppo di Gioia Tauro, ma anche nel numero di appalti su cui hanno messo le mani e nel loro valore. In meno di tre anni – dal 2012 al 2015 – hanno condizionato l’esito di 27 gare bandite dai Comuni di Gioia Tauro, Rosarno, Cosoleto, dalla Provincia di Reggio Calabria tramite la Suap e dall’Anas, per lavori del valore di 90 milioni di euro. In più – spiega il procuratore Paci – «le conversazioni intercettate ci hanno permesso di capire che in molti casi la qualità dei materiali utilizzati per le opere realizzati era veramente scarsa, in modo da massimizzare il guadagno».
METODI DI CONTAMINAZIONE Il metodo era da manuale. Grazie ad un cartello costituito da una sessantina di imprese calabresi e di altre regioni (Lazio, Sicilia, Campania, e Toscana), i Bagalà si sono accaparrati importanti lavori di ristrutturazione e di riqualificazione ambientale, ma anche un appalto sull’A3. «Si tratta di lavori di natura diversa, ma che sono stati tutti aggiudicati con le medesime modalità – spiega il procuratore aggiunto Gaetano Paci – e spesso con ribassi esigui. In un caso si è trattato solo dello 0,15%, e si può immaginare cosa questo voglia dire per le casse pubbliche». Per ogni lavoro, le varie imprese presentavano offerte già in precedenza concordate, in modo da aggiudicare l’appalto a una di quelle del gruppo. Quando si trattava di una delle imprese dei Bagalà erano loro a eseguire i lavori, altrimenti vi subentravano con i classici noli o attraverso le procure speciali rilasciate agli uomini del clan. In altri casi invece – ha spiegato il procuratore capo Federico Cafiero de Raho – «le buste venivano consegnate in bianco e compilate da chi di dovere».
STRUTTURA NECESSARIA Un metodo sofisticato che per essere messo in pratica necessitava di un’organizzazione complessa. E a più livelli, hanno scoperto gli inquirenti. A dirigere tutto era una cerchia di soggetti di cui faceva parte in primo luogo la famiglia Bagalà – i fratelli Giuseppe cl. 57 e Luigi cl. 46, e i rispettivi figli Francesco cl. 90 e Francesco cl. 77, tutti variamente imparentati con l’ex sindaco di Gioia Tauro, Pedà. Gli stessi indagati, intercettati, hanno definito questo livello la “cumbertazione”. «A parlarne è stato uno dei Bagalà, che racconta che un imprenditore – sottolinea il procuratore Paci – è stato freddato proprio perché non ha rispettato la cumbertazione. Al servizio dell’organizzazione tutta e soprattutto del suo gotha, ci sono funzionari corrotti, come Angela Nicoletta, definita testa di legno dei Piromalli all’interno del Comune di Gioia Tauro e professionisti come suo fratello Pasquale e Giorgio Morabito, soggetto originario di San Giorgio Morgeto, già attivo nel settore degli appalti di lavori.
IL RUOLO DELLE ALTRE DITTE Attorno ci stavano tutte le altre ditte del cartello, chiamate a presentare le offerte secondo importi che avrebbero automaticamente garantito ad una delle società del gruppo l’aggiudicazione. In alcuni casi, le imprese venivano scelte per i requisiti tecnici ed economici utili a soddisfare formalmente i criteri dell’appalto. Erano loro partecipare alle gare singolarmente o in Ati o Rti, per conto dell’organizzazione, ricevendo in cambio una percentuale che variava dal 2,5% al 5% sull’importo posto a base d’asta, al netto del ribasso. In altri casi invece, le imprese hanno presentato offerte fittizie, ricevendo in cambio, ad esempio, la garanzia che l’organizzazione, a sua volta, avrebbe presentato offerte fittizie per appalti di loro interesse così aiutandole ad aggiudicarsi le relative gare. Uno scambio che più volte è stato registrato fra i Bagalà e il gruppo Barbieri.
L’UOMO DEI MUTO Affermato imprenditore del Cosentino, Barbieri è stato individuato come testa di ponte del clan Muto nella città bruzia. «Siamo riusciti a intercettare regolari flussi di denaro che sistematicamente andavano da Barbieri alla cosca Muto», sottolinea il procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri, «ma questo non deve far pensare che soggiacesse a richieste estorsive. Diverse intercettazioni dimostrano che l’imprenditore era compartecipe delle scelte imprenditoriali del clan». D’altra parte, aggiunge, «la vicinanza ai Muto serviva da paravento a Barbieri, che in questo modo si proteggeva dalle richieste estorsive di altri clan».
CINQUE LUSTRI In questo modo, di fatto, il gruppo Barbieri ha messo le mani su tutte le grandi opere di Cosenza. In meno di un triennio, dieci imprese del gruppo hanno messo le mani su appalti di riqualificazione e gestione per 100 milioni di euro che vanno da piazza Bilotti al comprensorio sport-natura di Lorica, per arrivare fino alla riqualificazione delle aree prospicienti l’aviosuperficie di Scalea (CS) ai fini della realizzazione di servizi turistici e della riduzione dell’impatto ambientale, nonché alla relativa gestione per 25 anni delle strutture. Lavori – hanno scoperto i finanzieri seguendo un dipendente fidato dell’imprenditore, ritenuto intraneo alla cosca Muto – che il gruppo Barbieri si è accaparrato grazie ad accordi criminali. A lavorare a Cosenza erano i Muto.
CETRARO COMANDA A COSENZA Circostanze rese possibili anche dalla debolezza dei clan cosentini, spiega il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto. «In un certo momento storico i cosentini sono stati considerati ‘ndranghetisti di serie B a causa dell’alto numero di collaboratori di giustizia. I Muto invece non hanno mai avuto pentiti in famiglia e questo ha permesso loro di accrescere il propri
o potere». A Cosenza i Muto si sono presi tutto. Quando le scarcerazioni hanno rimesso su piazza qualche reggente dei clan locali, ci sono scesi a patti. «Piazza Bilotti, Lorica, l’aeroporto di Scalea. Per l’aggiudicazione di questi appalti – afferma Luberto – non ci sono state contese, l’unica impresa che partecipa è quella di Barbieri, dunque dei Muto. Questo è un dato evidente e che merita riflessione».
UN SISTEMA CHE NON DEVE SCORAGGIARE Ad emergere è stato dunque un «codice degli appalti della ‘ndrangheta» – così lo definisce il generale Miglioli – vigente in tutta la Calabria. «Ma noi – continua l’ufficiale – con questa operazione – abbiamo detto che così non si fa». Un messaggio – ripete anche oggi il procuratore Cafiero de Raho – che non può essere affidato solo a magistratura e forze dell’ordine, ma deve essere ripetuto da tutti. Inclusi gli imprenditori. «È necessario che gli operatori economici onesti non si tirino indietro e continuino a partecipare alle gare – dice il procuratore – denunciando questi meccanismi quando vi si imbattono».
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
x
x