REGGIO CALABRIA Per un ministro di dio, ufficialmente impegnato a raccogliere anime in terre disagiate, erano occupazioni molto terrene quelle che tenevano impegnato don Pino Strangio negli anni in cui è stato monitorato dagli investigatori per ordine della Dda. Legato da un rapporto quasi ombelicale all’avvocato Antonio Marra, considerato dagli inquirenti il braccio operativo di Paolo Romeo, vertice della cupola segreta della ‘ndrangheta, per anni il controverso sacerdote è stato ascoltato mentre discuteva di finanziamenti regionali, chiedeva nomine o indicava candidati, chiacchierava con politici, dirigenti e funzionari, organizzava cene e convegni.
LE ACCUSE Un’attività finalizzata in tutto e per tutto a favorire la ‘ndrangheta secondo i magistrati di Reggio Calabria, che oggi accusano don Pino Strangio di concorso esterno in associazione mafiosa e violazione della legge Anselmi, aggravata dall’aver favorito i clan. Un’accusa pesantissima su cui il religioso non ha proferito verbo, contrariamente agli anni in cui – senza timore di essere intercettato – avrebbe discusso per telefono di affari e candidature.
IL CANDIDATO DI DON PINO All’epoca, il religioso e Marra hanno un rapporto quasi quotidiano. Ed è spesso tramite lui – e i rapporti che per conto di Paolo Romeo cura e tesse – che per i magistrati don Pino ha accesso a uffici, denari e giochi politici. È il circuito di Marra e Romeo che gli permette di sponsorizzare la candidatura del cugino Antonio Costanzo, quando si tratta di mettere insieme le liste per le elezioni provinciali. «Lui – spiega il sacerdote intercettato dagli investigatori – è di San Luca, nato a San Luca, ma abita e risiede come vicesindaco a Sant’Ilario». Proprio quell’amministrazione che di lì a poco verrà sciolta per mafia.
SPONSORIZZAZIONI Le liste sono quelle di Noi Sud e la selezione – emerge dalle conversazioni agli atti dell’inchiesta – è stata gestita in tutto e per tutto da Romeo e dai suoi accoliti. Che gradiscono fino ad un certo punto la candidatura proposta da don Pino. «Costanzo, il cugino di Don Pino, “non c’intra un cazzu che faci n’drangheta”» si fa scappare Paolo Romeo nel corso di un’intercettazione, vaticinando le scarse speranze di successo elettorale. In ogni caso – affermano gli investigatori – la sua candidatura è considerata «utile» perché – si legge nelle informative – «sponsorizzato dalle varie consorterie mafiose della zona e da don Pino Strangio».
NOMINE A RICHIESTA D’altra parte, le indicazioni del religioso sembrano essere sempre tenute in considerazione. Persino per l’Automobile club. «Parlando con Pachito (al secolo il dirigente regionale Pasquale Melissari, ndr) – gli dice l’avvocato Marra al telefono – pensavamo se ci indicavate un nome che rappresenta tutta la parte ionica… una persona appassionata… un giovane insomma che vuole… per metterlo nella lista di…del…per l’elezione del Consiglio di amministrazione…dice parliamo con don Pino… con il Vescovo… se hanno a qualcheduno… una persona vicina a loro… che bravo… insomma che appassionato di queste cose lo mettiamo». Di suo però don Pino si sa muovere eccome.
IL NOSTRO ASSESSORE E senza timidezza alcuna lo racconta all’avvocato Marra, cui riferisce: «Io sono qui all’assessorato che dovevamo elaborare un passaggio di un nostro candidato all’assessorato alla Cultura e ce l’ho fatta… insieme all’assessore Bartolo della fondazione».
L’ASSO FINCALABRA Con altrettanta nonchalance il religioso e il legale discutono di finanziamenti comunitari – e di come sfruttarli – quando Marra viene nominato responsabile del microcredito per la provincia di Reggio Calabria nella finanziaria regionale Fincalabra. Un ente in house della Regione Calabria che, come ha rivelato l’ex sottosegretario Alberto Sarra negli interrogatori, è «uno strumento fondamentale» per il gruppo che fa capo a Romeo perché gestisce i finanziamenti regionali e comunitari. Non a caso – ha messo a verbale Sarra – il medesimo gruppo avrebbe spinto per la nomina nel cda di Nuccio Idone, poi diventato vicepresidente di Fincalabra. E proprio in quel periodo, Marra diventa responsabile del microcredito. E ovviamente – svelano le indagini –avrebbe cercato di favorire gli amici. Come don Pino.
IL PADRONE DEI FINANZIAMENTI «In che cosa consiste il microcredito? – spiega Marra al religioso – Nel finanziare una serie di piccole attività, non di grosse attività: dal fruttivendolo, che ti devo dire, a quello che vuole fare la macelleria, che vuole fare la lavanderia, che vuole fare, un negozio di pittura, ti dico le cose che già… le pratiche che ho visto no…? E l’erogazione avviene in questo modo, è un’istruttoria molto sommaria perché è per le persone disagiate, quindi anche chi ha avuto un protesto, chi ha avuto, chi è uscito dal carcere… stiamo finanziando un locale a Gioia Tauro di un ragazzo che ha fatto sedici anni di carcere, ed è uscito ora… tutta la gente che non ha la possibilità di accedere al credito bancario delle finanziarie, quindi noi gli diamo la possibilità di avere questa liquidità, per aprire delle piccole attività». I soldi poi – quanto meno in teoria, considerate le cause che l’avvocatura regionale tuttora si sobbarca per recuperare fondi spariti – devono essere restituiti, mentre la Regione si occupa di pagare gli interessi accumulati.
TROVAMI TRE PERSONE Don Pino pensa a vari progetti possibili, un caseificio, «ma questa è una cosa mia», una sartoria. E Marra entusiasta, ribatte: «Tu se trovi tre persone io gli do fino a settantacinque mila euro, se hanno problemi o hanno avuto problemi, il venti percento che è garantito dalla banca, mentre l’ottanta percento è garantito dalla Regione Calabria, non gli viene dato perché la Banca non ha le garanzie, quindi di settantacinque mila euro tieni conto due per cinque dieci, due per sei, tieni conto sono quindici ne prende sessanta, subito, i quindici li prende dopo un anno quando comincia a pagare le rate, man mano che lui rientra gli vengono ridati, perché li ha rientrati». Un progetto che poi si blocca perché gli aspiranti destinatari dei finanziamenti sponsorizzati da don Pino, non si sono neanche preoccupati di allegare i preventivi e a Catanzaro hanno paralizzato le pratiche. Ma anche lì Marra promette di metterci una pezza.
RIUNIONI MISTERIOSE Ben più discreti e criptici invece sono l’avvocato e don Pino quando devono organizzare incontri e riunioni a Polsi. Così come nel parlare degli invitati. «Per giorno dopodomani i tuoi amici sono pronti?», si limita a dire don Pino. Ancor più criptico è Marra. Una delle riunioni – prevista nei primi giorni di gennaio del 2011 – è oggetto di diverse, brevissime telefonate. Tutte intercettate.
INVITI Dalle registrazioni si comprende che parteciperanno Romeo, Idone, «viene pure penso l’onorevole Belcastro» annuncia trionfante Marra, che poi conclude «una decina di persone saremo». Se ci sarà anche Pasquale Melissari – dice don Pino – «glielo diciamo pure al capo». Ma chi siano i misteriosi ospiti dalla conversazione riportata nelle carte d’indagine non emerge, tanto meno il motivo che li spinge ad affrontare gli impervi tornanti aspromontani per incontrarsi con don Pino. E forse non solo. Perché è lui a dire a Marra: «Altrimenti andiamo noi, via e basta». Dove? Non è dato sapere. Tanto meno emergono ulteriori dettagli sulle successive riunioni che i due organizzano periodicamente e vedono spesso tra i partecipanti molti degli uomini dell’associazione segreta che la Dda ha smascherato. Ma di cui ancora deve raccontare tutte le attività.
LA TRAPPOLA Una di queste – particolarmente ambigua – risale al 2008. Sono mesi particolari in Calabria. Nonostante l’operazione Fehida, a soli 15 giorni dalla strage di Duisburg,
abbia portato dietro le sbarre i pesi massimi dei clan di San Luca, la pressione dello Stato continua a farsi sentire. Si cerca ancora Giovanni Strangio, la mente della strage. La Locride è militarizzata e questo a qualcuno non piace. Ecco perché – secondo le ipotesi degli investigatori – don Pino Strangio decide di fare qualcosa. Chiede aiuto a Marra, che storicamente – sfruttando la sua professione di avvocato – ha soffiato nelle orecchie delle forze dell’ordine nomi e indicazioni su latitanti da arrestare. E di certo non per senso di giustizia.
GESTIONE Secondo le ipotesi investigative, che oggi pesano sul capo di imputazione contestato a don Pino Strangio, le informazioni regolarmente fornite da Marra altro non sarebbero se non un metodo, utilizzato per amministrare con sapienza avvicendamenti gerarchici e dinamiche criminali. Nel tempo, l’avvocato ha anche coltivato i contatti giusti. Si tratta di due carabinieri, già indagati fra 2008 e 2009 e per i quali la stessa Dda ha chiesto e ottenuto l’archiviazione per inesistenza di elementi a sostegno dell’accusa di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio aggravata dall’articolo 7.
LATITANTI IN VENDITA Per disinnescare la pressione dello Stato sulla Locride si prova a “placare la belva” con qualche arresto da tempo sospeso. Strangio è un latitante troppo grosso e ne vengono offerti in pasto due di seconda fascia. In cambio – e qui sta il problema – vengono chiesti benefici carcerari per alcuni detenuti, che uno dei militari con cui Marra si dice disponibile ad assicurare. Ma il Ros monitora e stronca subito ogni contatto fra il legale e il militare, sospendendo il carabiniere dal servizio per poi trasferirlo ad altro incarico. Quando Marra lo viene a sapere, entra in panico. Si rivolge a un ufficiale dei servizi segreti con cui è in contatto, raccontando – per telefono – tutta la storia per filo e per segno. O almeno quella che sembra tutta la storia.
FALSA POLITICA Marra – che all’epoca sa già di essere intercettato – racconta infatti di aver avuto un incontro in procura con due magistrati della Dda che in realtà non c’è mai stato. Nel 2008, uno dei due militari che lo ha accompagnato e che è finito sotto indagine penale e disciplinare per quei rapporti, lo ha messo chiaramente a verbale sotto interrogatorio. Né il legale, né il sacerdote hanno mai parlato con i magistrati della Dda della cattura di un latitante.
LA STRATEGIA DELLA MILLANTERIA Anche in Dda ne sono convinti. Gli incontri millantati da Marra sono fandonie. Adesso però rimane da capire perché – quasi certamente consapevole di essere intercettato – l’avvocato abbia provato a far intendere di aver fatto tutto d’accordo con la magistratura. Un’operazione di falsa politica? Un tentativo di gettare fango sulle toghe? Una vendetta per quel provvedimento di sequestro che aveva colpito il terreno su cui sorge il santuario di Polsi? Pura strategia della confusione? Domande cui toccherà alle indagini rispondere. Anche perché – hanno svelato da tempo i pentiti – la ‘ndrangheta ha capito che è il fango (e non le pallottole) a uccidere in modo più efficace i giudici e a far saltare le indagini.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it
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