COSENZA Nell’indecoroso finale cui piazza Bilotti sembra destinata ci sono sfumature che vanno parecchio oltre gli aspetti giudiziari. Perché nel vortice che ha trascinato in cella un notissimo imprenditore, gettato un’ombra sulla gestione dell’appalto più ricco della storia della città e costretto a un inconsueto silenzio l’amministrazione comunale, finisce anche Cosenza con la sua non piccola storia. Sarebbe infatti sbagliato se lo sguardo venisse rivolto solo a questioni di manette, essendo tutto assai più complesso. Qui ad andare in frantumi è l’idea stessa che Cosenza ha edificato di sé, di una città borghese e colta, perfino illuminata, che oggi è un simulacro di ciò che è stata, perché in questa storia non ci sono innocenti. Non è innocente la politica, quella che governa e quella che dovrebbe stare all’opposizione, perché in quel cemento è impastata la credibilità di una intera classe dirigente. Non è innocente la borghesia cittadina, che con l’imprenditore rampante che mieteva successi e rastrellava appalti, è andata strettamente a braccetto, vantandosi di essergli amica, di frequentare gli stessi ambienti più modaioli e che finivano per diventare luoghi identitari, pronta a non fare, né farsi domande sugli inquietanti personaggi che spesso regolavano l’accesso a quei luoghi e ne garantivano l’esclusività. Ma c’è anche altro. Perché la chiave che potrebbe aprire un Vaso di Pandora sta nel domandarsi perché mai un giovane rampollo della borghesia cittadina, ricco e di successo abbia deciso di diventare il rappresentante presentabile, la faccia pulita di una delle più feroci cosche di ‘ndrangheta della Calabria.
Quando è cominciata la contaminazione che da un certo momento in poi ha generato una indistinguibile commistione tra le “persone perbene”, la società civile e la criminalità organizzata, dando vita a forme di malaffare che non potevano darsi senza la complicità dei consueti – e ancora senza un nome – colletti bianchi? Perché questa città non ha avuto un sussulto, non ha espresso nemmeno un blando stupore, nel sapere che alla gara d’appalto più ricca aveva partecipato solo la ditta Barbieri? Oggi la Dda ci racconta di come funzionavano gli appalti e di come certe gare al ribasso possano significare materiali scadenti e sfruttamento del lavoro. Quale superficialità può aver indotto il sindaco a dire, nel corso di una intervista, che all’appalto aveva partecipato una sola ditta per via della crisi, senza successivamente avere un dubbio quando, annullata la gara per questa ragione, a quella successiva si presentano ancora solo i Barbieri?
E oggi, dopo la tempesta dei sigilli alla piazza inaugurata con entusiasmo, ma secondo l’accusa costruita con la protezione della mafia, cosa dicono i membri di quella commissione di garanzia cui il comune diede vita per vigilare sui lavori di piazza Bilotti, composta dall’architetto Stefania Frasca, dall’avvocato Oreste Morcavallo e l’ingegnere Alessandro Coletta e pagati 100 mila euro in tutto.
E che dire degli approfondimenti della Prefettura che, dopo venti giorni di indagine, alla fine dell’agosto del 2014 dichiararono che la ditta Barbieri non aveva alcun condizionamento di tipo mafioso?
Piazza Bilotti prima di essere un problema estetico, argomento molto dibattuto sui social, appare come un problema etico. Come lo specchio spietato che racconta il declino morale e l’impoverimento materiale di una città intera.
Michele Giacomantonio
m.giacomantonio@corrierecal.it
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