REGGIO CALABRIA «La chiamano “Lo Scatolone”, è una palestra di plastica in lamiera, a pochi metri dallo stadio “Granillo” a Reggio Calabria. Nata come struttura di emergenza per fronteggiare l’ondata di sbarchi nel mese di luglio, è ad oggi un centro non governativo dove oltre 100 minori sono stati abbandonati da oltre 6 mesi dalle istituzioni». È l’incipit di un circostanziato dossier redatto dai referenti della campagna LasciateCIEntrare – Luca Mannarino (attivista), Emilia Corea (associazione La Kasbah) e collettivo autonomo AltraLamezia – dopo un sopralluogo effettuato lo scorso 21 gennaio. «Al nostro arrivo abbiamo trovato due ragazzini in ciabatte e pantaloncini lisi, fermi all’entrata: gli sguardi estranei e turbati, di bambini cresciuti in fretta, soli ad affrontare un’ordinaria giornata di freddo gelido in una terra straniera. Dopo avere scambiato due parole con loro ci accompagnano all’interno, “dovete vedere per comprendere la nostra situazione” ci dicono». E ciò che gli attivisti hanno visto è «il completo fallimento di un sistema di accoglienza ipocrita». Nel report si parla infatti di «naufragio dell’umanità», con un centinaio di adolescenti che «vivono in un limbo di assenza di qualsiasi tutela, nel generale rifiuto della società». Oltre cento minori, il più giovane dei quali appena tredicenne, condividono un unico spazio, uno stanzone in cui si fa tutto, si dorme e si mangia sulle brandine.
«Quale crimine hanno commesso questi piccoli uomini – si legge nel report di LasciateCIEentrare – per essere costretti a vivere in simili condizioni, ci chiediamo? Voltare la testa da un’altra parte, non guardare, è impossibile. Anche se entrando nell’anticamera dell’inferno che è “lo scatolone” avremmo preferito non farlo. Per non vedere quelle che sono, invece, le colpe della nostra società, vile e ignobile. In alcuni punti, i vetri alle finestre sono stati sostituiti da cartoni, da fogli di compensato dai quali penetra il freddo pungente di una glaciale mattina di inverno. In fondo allo stanzone si apre un corridoio dove si trovano i servizi igienici, solo due gabinetti per oltre cento persone. Dalle docce scorre acqua gelida che ristagna sui pavimenti sporchi. In un angolo, su una panca è appoggiato un vecchio phon da viaggio. I ragazzi ci raccontano che lo usano, all’uscita dalla doccia, per asciugare i loro corpi. Non esistono asciugamani né accappatoi. I vestiti, ci dicono, vengono lavati a mano e stesi ad asciugare su un muro, sul retro della struttura. Alcuni raccontano di essere stati portati allo “Scatolone” 6 mesi fa. Tutti, ci riferiscono, sono ancora in attesa del primo permesso di soggiorno. Non hanno documenti, solo un tesserino con un numero di matricola. Molti di loro, al nostro arrivo, continuano a dormire sulle brandine da campeggio, con addosso le misere coperte dell’esercito, insufficienti a proteggerli dal freddo. Altri sono ansiosi di parlare, di raccontarci le loro vicissitudini di bambini cresciuti in fretta sotto le clusterbombs, nelle carceri libiche dove venivano stuprati tutti i giorni e poi tra il vomito e la benzina di navi cariche di morte».
A gestire quelli che dovrebbero essere i servizi erogati dal Comune sono i volontari dell’Associazione Nazionale dei Carabinieri: «Ci dicono che la struttura dovrebbe servire alla primissima accoglienza di questi ragazzi, i quali dovrebbero rimanere al suo interno per sole 78 ore: “Eppure ci sono ragazzi che sono qui da sei mesi”, ammettono. Ripetono più volte di essere in quel luogo in maniera assolutamente volontaria, spinti dal proposito di creare con i ragazzi rapporti umani, e di non avere responsabilità alcuna sulla situazione venutasi a creare. Ci raccontano delle difficoltà da parte dell’Amministrazione comunale e della Prefettura nel trovare sistemazioni alternative, sia in Calabria che altrove nell’intero territorio nazionale. Appena si accorgono, però, che alcuni di noi sono riusciti ad entrare nella struttura invitati dai ragazzi, ci intimano di uscire immediatamente, non dimenticandosi di ricordarci che i due ragazzi con i quali stavamo parlando, e che ci stavano raccontando il malessere generalizzato in quella struttura, “hanno problemi mentali”».
Usciti dalla struttura, a catturare l’ attenzione degli attivisti è un ragazzo in lacrime: «Ci riferisce di avere mal di denti da diversi giorni. Ma le sue sono le lacrime di un sedicenne solo, vissuto all’inferno di un viaggio che lo ha portato verso una terra che doveva regalargli un futuro diverso, ma che lo ha solo traghettato verso l’altra sponda dell’Ade. Le sue sono le lacrime di un ragazzo che si vede impotente e incapace di determinare il proprio futuro, a cui sono state rubati i sogni e le speranze che un sedicenne ha il pieno diritto di avere». Gli attivisti si chiedono dunque di chi sia la responsabilità di tutto questo, «dove siano e cosa stiano facendo, oltre a rimpallare (come prevede il buon costume italiano) le proprie responsabilità, tutte le istituzioni e le organizzazioni umanitarie che dovrebbero intervenire per ridare speranza a 100 ragazzi».
Pochi giorni dopo il sopralluogo, il 25 gennaio, gli attivisti di LasciateCIEntrare sono stati avvisati da alcuni dei minori presenti nella struttura del fatto che circa una ventina di loro erano stati prelevati dalla polizia e portati in questura. «Durante l’operazione, riferiscono i ragazzi, gli stessi volontari dell’Associazione Nazionale Carabinieri indicavano ai militari quali ragazzi dovessero essere prelevati. I 20 ragazzi rimangono in questura per tutta la giornata senza ricevere neanche un pasto, e vengono rilasciati intorno alle 2,30. Nel documento di notifica che viene rilasciato loro, ovviamente non tradotto nella lingua d’origine (nel provvedimento si parla di una traduzione orale all’atto della notifica), viene dichiarato che i ragazzi si sono “resi responsabili di condotte integranti gravi turbative all’ordine e alla sicurezza pubblica” e che viene “valutata positivamente la pericolosità sociale del proposto e risolta favorevolmente la prognosi circa la sua attitudine alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica”. La verità – concludono gli attivisti – è che i ragazzi si sono resi colpevoli di aver inscenato due proteste a distanza di pochi giorni, tentando di bloccare la strada di accesso alla struttura, per contestare le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere e le continue vessazioni che sono costretti a subire. Insomma, un’altra vergogna, l’ennesima, del “modello” di accoglienza italiano».
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