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La piazza, la bellezza e la malafede

Secondo il ricercatore universitario Battista Sangineto, archeologo, Piazza Bilotti sarebbe l’agorà della mafia, il paradigma della bruttezza, l’esaltazione dell’antitesi di un pensiero che ha ragi…

Pubblicato il: 28/01/2017 – 9:37
La piazza, la bellezza e la malafede

Secondo il ricercatore universitario Battista Sangineto, archeologo, Piazza Bilotti sarebbe l’agorà della mafia, il paradigma della bruttezza, l’esaltazione dell’antitesi di un pensiero che ha ragione di essere se inserito in un cuneo unico e preciso.
Di questo Pantheon, ovviamente, Mario Occhiuto sarebbe il gran visir, il despota che ludicizza la realtà, scava nella ricerca di Alarico e collude, almeno come responsabilità politica, con chi costruisce e realizza quella piazza ed è accusato (ricordiamolo, ancora accusato) di essere in combutta con la ‘ndrangheta.
Ci vuole un carico di acrimonia senza limiti per esibirsi in un esercizio di pura malafede , che offende la memoria e l’identità di un topos , la sua struttura estetica (in senso ellenico) e riduce a populismo becero l’urbanistica, la politica, l’etica.
Dubito che Sangineto conosca la forza virulenta del futurismo, la sua scandalosa attualità, la comparazione che esso ha con le nuove costruzioni di Cosenza.
In realtà non è questo, però, il punto. Sangineto ha il diritto di esprimere il suo concetto di bellezza, soggettivo, cosi come l’urbanistica anni 50 definiva il razionalismo fascista “orrendo e impresentabile”, salvo poi arrendersi dinanzi alla sua unicità, al razionalismo, all’identità che oggi è patrimonio comune ed esempio virtuoso nel mondo.
Non è questo che è in discussione ma tutto il resto.
Lo sperticarsi in elogi verso chi in questa città ha operato un saccheggio indiscriminato, succhiando senza sazietà dalle provvidenze della sanità pubblica, che ha scalfito la sua reputazione riempendo le liste civiche di pregiudicati e continuando quella linea di compenetrazione tra città e delinquenza che iniziò negli anni Novanta e che Mario Occhiuto ha stoppato, fermato, interrotto.
Aggregare qualunquismo sulla scorta di un intellettualismo omologato dal ruolo (Ferrarotti definiva le Università come “Modus morendi”) ma tacendo su ciò che è per sua stessa natura corrosivo, clientelare e familistico e cioè l’Università, tempio di nozionismo e di autoreferenzialità, non è tanto corretto.
Rendersi accademico di se stesso, offendendo in un solo colpo il diritto e la sociologia urbanistica che non sono due orpelli inutili ma un corredo di patrimonio ineludibile per ogni pubblica amministrazione, è altrettanto grave .
Il diritto è la certezza della procedura e se vi sono collusioni (e non ve ne sono) tra ente e ‘ndrangheta allora bisogna chiamare alle responsabilità il prefetto di Cosenza che indicò la commissione aggiudicataria di quella gara e che certo non avrebbe mai ceduto alle pressioni della mafia.
La sociologia urbanistica, ed è quella in cui Occhiuto giganteggia, è lo strumento di eccellenza dell’emancipazione sociale, il luogo nel quale si superano le costruzioni artificiose dell’emarginazione.
In questa città, e Sangineto qui denota la sua scarsa radice cosentina, nacque su finire degli anni sessanta l’idea del quartiere ghetto, con via Popilia come terminale di una follia collettivista che vedeva nella ramificazione di un urbanistica marxista la divisione tra ceti.
In quel tempo è lievitata la discriminazione come totem insuperabile, la spoliazione dal centro storico, la deportazione verso una terra di solitudine e di proliferazione della marginalità.
La piazza è l’antitesi perfetta della subordinazione sociale, è la catarsi dalla sopraffazione che trasmuta nella divisione bipolare tra città e periferia.
Di questo processo lungo un quindicennio l’Unical è stata corresponsabile, con la sua chiusura anedonica, la pretesa di essere primazia senza contraddittorio, la chiusura in una monade di privilegi e consorterie che hanno visto ex Lsu assurgere al ruolo di docenti.
Senza mai un controllo, un’indagine sui chilometri d’oro, sulle cattedre nepotistiche, sul familismo più amorale che ha deturpato e depotenziato l’immagine e la forza stessa, iniziale, dell’Ateneo.
Se Sangineto parla per revanche, ora contestando il mito alariciano e tentando goffamente di contrastarlo con una razionalità inconcludente, ora per mestare nel torbido di equazioni inesistenti, è bene che si informi su chi, come e quando ha avuto rapporti organici con la malavita, l’ha inglobata nel suo seno, l’ha pagata con i soldi pubblici.
La dimensione aristocratica del classicismo cosentino è un ricordo storico ma non ha alcun raccordo né con la realtà, né con l’attualità.
Il suo sistema chiuso, oligarchico, altamente minoritario democraticamente (ma maggioritario sul piano economico), non perdonerà mai ad Occhiuto di avere vinto due volte le elezioni non provenendo dal grembo degli incroci familistici che hanno difeso solo il reddito parassitario non producendo ricchezza.
Se c’è un uomo autenticamente di sinistra, e non è una provocazione, è proprio il sindaco e certamente lo è la sua visione architettonica.
L’impudicizia solonica ha una sua ragione d’essere se viene espressa nel cuneo della sapienza e non in una riserva di partitismo che accomuna mediocrità politiche e generalizzazioni volgari.
Non ci si meraviglia di nulla, per carità, dai tempi in cui Salvo Lima elogiava Chinnici e lo esortava a un interventismo assoluto (!) ma la reputazione è un valore che non si scolorisce, né la si può nascondere. E in alcuni casi il silenzio sarebbe obbligatorio.

*giornalista e sociologo della Salute

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