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Giustizia e informazione, consigli per un giusto equilibrio

Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 del presidente della Corte d’appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, v’è, tra gli altri, un passaggio di particolare importanza: quell…

Pubblicato il: 29/01/2017 – 9:54
Giustizia e informazione, consigli per un giusto equilibrio

Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 del presidente della Corte d’appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis, v’è, tra gli altri, un passaggio di particolare importanza: quello relativo al rapporto (tormentato) tra giustizia e informazione. 
Se, da un lato, il presidente ha richiamato alla necessità di un’«informazione completa e fondata su un’approfondita conoscenza di dati, fatti […] a cominciare ovviamente dai provvedimenti», dall’altro, ne ha sottolineato il ruolo di «sprone all’azione e al migliore esercizio della funzione (giurisdizionale, n.d.r.)». 
Si è spinto, poi, più in là, calando il ruolo dell’informazione nel nostro particolare contesto territoriale. Ruolo qui «ancor più importante, proprio perché la comunicazione è essa stessa superamento del silenzio che indebitamente ci avvolge». 
Giunge così al passaggio su cui vorrei richiamare l’attenzione. Dice, il presidente, che occorre evitare «l’enfatizzazione di una fase processuale rispetto alle altre», specie nel processo penale, in cui i riflettori si accend(o)no sulle battute iniziali dell’operazione conseguente ai primi provvedimenti, salvo poi trascurare i momenti successivi».
L’ammonimento di Gerardis fa eco al richiamo del presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, che, nella sua relazione inaugurale, mette in guardia dal pericolo dell’«autoreferenzialità» dei pm. Un risultato che nell’opinione pubblica può generare un corto circuito tra «giustizia attesa e giustizia attuata». 
Detto questo, è indubbio che il rapporto tra giustizia e informazione non solo è delicato, ma è anche complesso. 
Si tratta di un rapporto nel quale si intrecciano il diritto-dovere degli organi inquirenti di presentare all’opinione pubblica ipotesi o risultati investigativi che hanno particolare rilevanza pubblica, il diritto dei cittadini di essere informati, il diritto (forse, anche dovere) dei giornalisti di informare (e commentare).
È ormai d’uso – e, alle nostre latitudini, certo non manca – la conferenza stampa degli organi investigativi finalizzata a presentare all’opinione pubblica risultati di indagine, operazioni, provvedimenti di particolare rilevanza pubblica. 
Non discuto che sia interesse dell’opinione pubblica conoscere queste attività degli organi inquirenti. Né, conseguentemente, può discutersi che, se fatto correttamente, sia diritto dei giornalisti informare l’opinione pubblica. 
Quale, allora, il problema? 
Il problema è che gli organi inquirenti non debbono, a mio sommesso avviso, presentare la propria attività se non come ipotesi investigativa iniziale da sottoporre ad ulteriori approfondimenti e, ove suscettibile di reggere allo scrutinio giurisdizionale, al giudizio. 
Se, come spesso accade, la presentazione dell’attività investigativa, da parte degli organi inquirenti, indulge in toni che lasciano trapelare «autoreferenzialità», si forma, nell’immaginario collettivo, il convincimento che quella offerta all’opinione pubblica non sia un’ipotesi investigativa da sottoporre al vaglio del giudizio, ma una condanna. 
L’effetto è devastante quando le normali e fisiologiche dinamiche processuali portino poi a demolire quella che era solo un’ipotesi accusatoria. Se gli “addetti ai lavori” o, comunque, l’opinione pubblica culturalmente più attrezzata non si stupiscono di quest’esito, non accade lo stesso a chi è privo degli strumenti necessari per capire il meccanismo processuale. 
Esplode così quel cortocircuito tra «giustizia attesa e giustizia attuata», di cui ha parlato il presidente della Cassazione. 
Effetto devastante, dicevo. Devastante perché l’eventuale rigetto, all’esito del giudizio, dell’ipotesi di accusa viene percepito dai più come rimestamento di una condanna già emessa dagli organi investigativi, quando i riflettori erano ampiamente accesi sulla loro attività. 
Di qui una delle cause della crisi del “sistema giustizia” nel suo complesso: la caduta della fiducia dell’opinione pubblica nell’attività della magistratura. 
Un danno enorme per la società tutta.   
Appartiene all’albero della giurisdizione, il pubblico ministero. E, per quanto «parte» nel processo, è, come si dice con felice ossimoro, «parte imparziale». Ampiamente diffusa tale consapevolezza, e, per di più, rivendicata.
Possono portare alla richiesta di archiviazione gli ulteriori approfondimenti investigativi. Allo stesso modo, le dinamiche del processo possono condurre a rigettare l’ipotesi accusatoria. Ed è fisiologico che questo accada. 
D’altronde, la verità processuale è sintesi che si costruisce nel gioco del contraddittorio. Non è interesse dell’accusa (e della comunità tutta) assolvere un colpevole, ma nemmeno condannare un innocente.
Correttamente, dunque, il presidente Gerardis pianta i suoi caveat quando invita ad non enfatizzare una fase processuale rispetto alle altre. È giusto, infatti, che i riflettori non si accendano soltanto sulla presentazione delle battute iniziali di un’operazione investigativa e sui relativi provvedimenti, ma anche sull’attività processuale successiva. 
Non può, tuttavia, addebitarsi all’informazione il tono in cui spesso indulgono gli organi inquirenti nel presentare all’opinione pubblica i risultati investigativi. Quel tono che ha indotto Canzio a parlare di «autoreferenzialità» del pubblico ministero. 

*Docente Università Mediterranea di Reggio Calabria

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